Il PNRR e il Mezzogiorno. Opportunità e rischi

Il PNRR si configura come un intervento strutturale per risollevare il Paese portandolo a superare le criticità economiche sociali e produttive, attraverso diverse fonti di finanziamento che si collocano pienamente nel capitolo della Coesione economica sociale e territoriale. Questo strumento, la cui efficacia sembra essere stata data per scontata ancor prima di poterne monitorare gli effetti, viene propagandato come la soluzione finale ai problemi e le difficoltà inflitti all’Italia dalla crisi sanitaria degli ultimi 2 anni. Per poter analizzare e capire cosa rappresenti, e cosa in concreto può fare, questo strumento, è opportuno partire da un’analisi del suo acronimo. PNRR, come tutti sanno, sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tralasciando il significato, ovvio per tutti, del sostantivo “Piano” e dell’aggettivo “Nazionale”, rimane fondamentale capire cosa vogliano dire i 2 sostantivi “Ripresa” e “Resilienza”.

Il termine “Ripresa” dovrebbe indicare il ritorno di un sistema, in questo caso l’Italia, ad uno stato desiderabile dopo uno stress. Dunque, è di fondamentale importanza individuare sia lo stato desiderabile che lo stress ha perturbato. Quest’ultimo, almeno nell’interpretazione corrente, dovrebbe essere individuato nella “crisi pandemica”, unico fattore che ha depresso l’economia italiana. E qui già non ci siamo e vedremo perché. Passiamo per il momento a riflettere sul termine “Ripresa”, cioè recuperare le posizioni perdute e far ripartire l’economia. Qual è, dunque, l’anno di riferimento a cui dovrebbero tendere gli indicatori economici, perché si possa parlare di “Ripresa”?. Il PIL potrebbe essere un buon indicatore. Se ripercorriamo l’andamento del PIL italiano negli ultimi 20 anni è ben difficile scegliere quale potrebbe essere l’anno di riferimento al quale la nostra “Ripresa” dovrebbe tendere.

Dal 2002 ad oggi sono 5 gli anni con crescita negativa, 8 gli anni con crescita positiva ma al disotto dell’unità (crescita 0% per il 2014) e 6 gli anni con crescita al di sopra dell’unità, ma con un massimo di 1,7%. Unica eccezione il 2021, che fa registrare una crescita del 6,6% rispetto all’anno precedente. Non sia di consolazione perché il 2020 ha fatto registrare un valore di -9,0%, quindi la “ripresa” nel 2021 non copre nemmeno la perdita del 2020. Ricordiamo che il valore di crescita del PIL per il 2019 si è attestato sullo 0,5%, certamente un risultato che non può essere considerato brillante. Dunque, appare chiaro che l’economia italiana non fosse in buona salute anche prima della “crisi pandemica” (fatto per altro noto urbi et orbi), che ha solo peggiorato una tendenza negativa in atto da molti anni, con il vantaggio, però, di aver “raffreddato l’inflazione”, secondo le parole di Ursula von der Leyen. Allora rimane da chiedersi quale sia l’anno di riferimento a cui guardare per stabilire i parametri economici “desiderabili” a cui tendere. La domanda rimane senza risposta.

Passiamo ora al sostantivo “Resilienza” il cui significato si può riassumere come segue: capacità di un sistema, sottoposto a stress, di ritornare alle condizioni di partenza al termine della perturbazione. La cosa si fa ora più complessa, perché per poter parlare della costruzione di un sistema resiliente bisogna:

  • individuare lo stato di partenza assunto come riferimento. Abbiamo visto che la cosa non è tanto semplice, almeno se ci riferiamo agli ultimi 20 anni
  • individuare il fattore di stress. Anche qui sorgono delle difficoltà. La “crisi pandemica” ha solo peggiorato una situazione di stress in atto da anni, quindi non può essere indicata come unica causa delle difficoltà odierne
  • individuare il cammino attraverso cui il sistema possa ritornare allo stato di riferimento. Cosa questa impossibile se non si definisce lo stato di partenza e non si identifica con precisione la natura dello stress.

Appare, dunque, evidente che questo “Piano Nazionale” sia, sin dalla sua denominazione, un esercizio retorico, che, come vedremo qui di seguito, alla retorica aggiunge una serie di ingiustizie e discriminazioni. Il Decreto Legge 77 del 2021 pone l’obbligo per le Amministrazioni centrali di destinare una quota di finanziamenti al Mezzogiorno pari al 40% prevedendo il relativo monitoraggio. In ottemperanza alla normativa citata, è stato effettuato il primo monitoraggio, per singoli Ministeri, della programmazione e dell’impiego del 40% delle risorse del PNRR nel Mezzogiorno. Sono stati già programmati su base territoriale soltanto 18 miliardi di euro circa, mentre, complessivamente, le risorse impiegabili si stima ammonterebbero a 74,7 mld di euro, ovvero circa il 40,6 %.

Da questo calcolo rimangono escluse alcune misure per le quali i Ministeri di riferimento ritengono che, per quanto in potenza “territorializzabili”, non si possa attuare tale meccanismo di distribuzione. La maggior parte delle Amministrazioni ha espresso stime che rispettano la quota prevista, tuttavia, in alcuni casi, si tratta di una “adesione di principio” a quanto richiesto per legge, che in precedenti occasioni di finanziamento si è dimostrata insufficiente. Si pongono quindi diverse questioni di rilievo, peraltro condivise da più interlocutori. La prima consiste nell’esplicitare, nei meccanismi di allocazione, bandi, sportelli o altri strumenti, l’obbligo del 40% di destinazione delle risorse al Sud, condizione, come noto, necessaria, ma non sufficiente.

Bisogna assicurare maggiore attivazione specifica da parte delle Amministrazioni per garantire l’effettivo impiego nel Mezzogiorno delle risorse che, per quanto esplicitamente destinate al Sud, attraverso bandi o altri strumenti, di fatto non sono state richieste, a causa di incapacità amministrative e programmatorie degli enti o delle imprese potenzialmente beneficiarie. A questo bisogna aggiungere che alcune delle azioni previste dal PNRR riguardano mobilità, educazione e sanità. Vale la pena ricordare che questi tre elementi rappresentano bisogni essenziali il cui soddisfacimento è garantito dalla Costituzione e che, in nessun modo, debbono essere soddisfatti da interventi straordinari e, per di più, mettendo in concorrenza tra loro i possibili beneficiari attraverso la partecipazione a bandi di assegnazione delle risorse.

La pratica di finanziare la spesa corrente con interventi straordinari non è nuova nel nostro Paese, ma è nuova la ricaduta negativa, in termini puramente economici, degli strumenti previsti dal PNRR. Non solo si mettono in concorrenza tra loro i possibili beneficiari per il soddisfacimento di bisogni primari, ma il pagamento del debito, che l’Italia contrae con l’accesso ai finanziamenti del PNRR, e degli interessi sul debito, verranno pagati da tutti gli italiani, anche da chi non potrà accedere a queste risorse. L’impatto sulla nostra economia di tutto questo è sconosciuto e non sembra ci sia nessuno preoccupato a valutarlo.

Alcune criticità si sono già manifestate in cospicui finanziamenti di competenza di diversi Ministeri. In particolare, risultano al di sotto del 40% previsto il Ministero per lo sviluppo economico, il Ministero per il turismo, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L’azione del Ministero per lo sviluppo economico è strategica, in quanto la più bassa percentuale di addetti ai settori industriali nel Mezzogiorno è una delle cause principali della minore occupazione complessiva dell’Area. Il Ministero è titolare di ben 13 misure, per un ammontare complessivo, tra PNRR e Fondi Complementari, di circa 25,04 miliardi di euro.

Il fatto che il Ministero valuti la quota complessiva assorbita al Sud pari al solo 21,2% è una gravissima criticità, che va risolta con mezzi e strumenti più efficaci di quelli individuati. In particolare, la misura Transizione 4.0 risulta avere la quota più bassa di destinazione, ovvero soltanto il 19,4%. E’ nota la crisi del settore turistico al Sud, come peraltro nel resto del Paese, che invece negli anni pre-covid si stava espandendo sensibilmente. Per il settore turismo sono già stati attivati 2,29 miliardi (la gran parte) su 2,4 miliardi disponibili attraverso 12 procedure a bando o a sportello. Le misure finora attivate non prevedono vincoli territoriali, sia per il meccanismo del credito d’imposta, che per gli accordi con soggetti gestori, in particolare con la Cassa Depositi e Prestiti (in questo caso il Ministero non assicura la quota del 40%). Mentre in alcuni bandi, pur essendo prevista la riserva del 40%, le risorse vengono attribuite sulla base del momento di presentazione delle domande (a sportello), procedura che potrebbe non garantire le quote indicate.

In ordine a queste misure si prevede di arrivare nel Mezzogiorno ad un assorbimento massimo del 28,6%, e non sono stati previsti meccanismi correttivi. La quota di risorse PNRR in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali è di circa 7 miliardi euro, nell’ambito della Missione 5 – Inclusione. Delle sette misure previste ne sono state attivate sei. La stima data del Ministero è di un assorbimento pari al 37% circa, ma rischia di non essere effettivamente realizzata (altri organismi stimano al 26-27% circa dieci punti in meno). Le misure per loro natura sono territorializzabili, ma non sono state attivate rispettando il vincolo del 40%, inoltre per alcune misure e segnatamente agli interventi per il sistema duale, si fa riferimento alla spesa storica che penalizza fortemente il Mezzogiorno e rappresenta una esplicita rinuncia a migliorare la situazione. A ciò si aggiunge l’intenzione del Ministero di procedere, anche per i nuovi bandi, sulla base delle precedenti esperienze.

Ciò rappresenta una criticità anche nel campo del sociale, in particolare nei percorsi di rafforzamento delle forme di assistenza agli anziani non autosufficienti, e dei percorsi di autonomia per persone con disabilità. Nel Sud permangono divari particolarmente critici. In particolare, il tasso di occupazione, sebbene leggermente migliorato, permane al 46%, e per le donne al 34,6%, mentre il tasso di inattività è al 45,4% a fronte di una media italiana del 34,5% e la disoccupazione, che pur diminuita, resta al 15,6 %, quasi 3 volte superiore a quella del Nord, e di 6 punti più elevata della media italiana.

Tra i non attivi è molto alta la non partecipazione al lavoro per scoraggiamento o impegni familiari, che riguardano per oltre il 90% le donne. Inoltre, nel Mezzogiorno continua a crescere la povertà assoluta: le persone povere sono 195mila in più rispetto al 2020, con una percentuale del 12,1%, un punto percentuale in più rispetto all’anno precedente, per quanto concerne gli individui, fattore che si traduce in una quota del 10,0% delle famiglie in profonda difficoltà, mentre per converso al Nord si registra un miglioramento sia a livello familiare che individuale. Appare paradossale che nel Programma Next Generation UE Regione Campania il capitolo “povertà” non viene neanche trattato, come non trattato è il capitolo di reinserimento lavorativo per le persone in disagio fisico e sociale

L’incremento, peraltro contenuto, della sola occupazione dipendente a tempo determinato, non ha inciso sulla povertà. È noto che sui 191,5 miliardi del PNRR c’è una quota di cosiddetti progetti in essere, cioè di iniziative già finanziate, la cui vecchia copertura viene spostata sul Piano. Il Parlamento europeo ha tuttavia invitato i governi a limitare la tecnica del «reimpacchettamento» perché in contrasto con la finalità di sviluppo che giustifica il Next Generation Eu. Il Parlamento italiano ha chiesto di fare chiarezza sulla cifra di progetti reimpacchettati, la cui stima cambia continuamente ed è, nella versione più aggiornata, di 51,6 miliardi di euro.

Sapere esattamente se un finanziamento è aggiuntivo (quindi porta sviluppo, ma anche nuovo debito) oppure sostitutivo è decisivo per tenere sotto controllo i conti pubblici perché, per esempio, i progetti sponda riducono le stime di crescita. Nel dossier sul PNRR degli Uffici studi di Camera e Senato di fronte al balletto di cifre sui progetti esistenti l’imbarazzo è evidente.

Tanto più accentuato a fronte di progetti che dal progettato al reimpacchettamento si trovano ad essere “magicamente” trasformati come, ad esempio, le linee ferroviarie Napoli – Bari e Napoli – Reggio Calabria, in progetto classificate ad Alta Capacità e nel reimpacchettamento come Alta Velocità che prevede tipologie costruttive e di attrezzaggio  della rete ben differenti, tanto che si valuta un risparmio dei tempi di percorrenza sulla Napoli – Reggio pari a soli trenta minuti, altro che velocità.

Dopo avere documentato sulle pagine de “Il Mattino” i trucchi contabili grazie ai quali il Governo Draghi ha scippato, e tuttora continua a scippare, le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza al Sud, lo scrittore e giornalista Marco Esposito così sintetizza: Se il Sud non esistesse, – scrive – puff!, sparito, lItalia avrebbe perso il 70% dei fondi del Pnrr. Ma il Sud Italia c’è, con i suoi abitanti e i suoi problemi, e quindi i soldi sono arrivati. Al Sud si è deciso di garantire per legge non il 70% ma il 40%. Poi però anche il 40% deve essere apparso eccessivo”.

E così, – prosegue – il ministero della Ricerca garantisce per il bando Prin (fondi per la ricerca e l’università) il 40% al Sud di 445 milioni anche se il bando è di 742, quindi il 40% diventa 29%”.

La matematica non è unopinione, si dice. Al Sud – conclude – la matematica è una concessione”.

Esposito spiega che: “Se un Comune ha zero asili nido, il suo fabbisogno futuro di asili nido sarà uguale a zero. Questo succede anche per i diversi servizi che un territorio offre ai cittadini”. E quindi il finanziamento di questo comune nel futuro sarà pari a zero!

La sovrapposizione della ‘spesa storica’ al criterio dei ‘livelli essenziali di prestazione’, tende quasi esplicitamente a forzare una migrazione dei cittadini del Sud in cerca di quei servizi, inesistenti o depauperati con la progressiva erosione dei fondi reali, nei territori di origine.

La soluzione secondo Adriano Giannola, presidente della Svimez, potrebbe essere quella di poteri sostitutivi dello Stato Centrale che, attraverso un censimento, dovrebbero individuare i territori che necessitano di un intervento, evitando che gli interessi economici possano creare paradossi che appunto sfaldano la Coesione Sociale e Territoriale del Paese, andando contro gli obiettivi da raggiungere. In altre parole bisognerebbe evidenziare e rispettare quelli che una volta venivano definiti “Diritti di cittadinanza”.

Lo stesso Giannola preconizza un sistema di sussidiarietà verticale che, partendo dallo stato, impegni le Università meridionali nel ruolo di “assistenti tecnici” per gli enti locali non in grado né di formulare progetti da presentare al finanziamento, nè di rendicontare il finanziamento stesso. L’Università però latita e non è in grado nemmeno di intervenire in questo frangente, riempendo finalmente di significato, e nobilitando, quella che viene chiamata, ancora seguendo una vis retorica, la “terza missione”. Nelle Università meridionali un dibattito su questi temi, e sulla loro responsabilità nei processi di sviluppo territoriale, non è mai cominciato, né nessuno si preoccupa di stimolarlo. L’importante è arrivare all’obiettivo: spendere i soldi e dare ai cittadini più diritti e più opportunità.

Il Mezzogiorno si è trovato più volte a poter cogliere delle grandi occasioni, come la stagione della programmazione negoziata. L’opportunità del PNRR non garantisce il successo, in questo che è “il migliore dei mondi possibili” per citare Voltaire. Serve uno sforzo delle intelligenze, delle amministrazioni per mettere in valore le opportunità del Piano. Che sono enormi. La guerra in Ucraina mina la tenuta degli equilibri economici. Il PNRR diventa una scommessa il cui esito non è affatto scontato. La guerra può incidere moltissimo sul PNRR, c’è un forte incremento dei prezzi e andranno riviste le quotazioni delle varie opere inserire nel Piano perché altrimenti le imprese non partecipano ai bandi.

C’è un senso di incertezza e preoccupazione che incide sulla capacità e la voglia di investire. Tutto dipende da quanto durerà il conflitto, se dovesse terminare presto tutto potrebbe tornare come prima, in caso contrario si assisterebbe alla grande fiammata dell’inflazione (già in corso) ed alla conseguente caduta del PIL (per successive ammissioni dal 9,6% al 4,6% al 2,3%). Che annullerebbero gli effetti del Piano. L’economia italiana deve superare almeno tre fattori di grave debolezza. In primo luogo, a fronte di un nucleo di attività sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, la maggior parte delle imprese italiane è di piccola o piccolissima dimensione (94%) e ha un’organizzazione produttiva tradizionale, che negli ultimi venti anni ha comportato una stagnazione nelle varie forme di produttività; ciò vale soprattutto per il settore dei servizi ma riguarda anche componenti rilevanti del settore manifatturiero. Pertanto, se vuole misurarsi con la transizione digitale e ripristinare un’adeguata dinamica della produttività, gran parte delle imprese italiane deve attuare processi di aggregazione e di ristrutturazione molto più profondi di quelli richiesti in altri grandi Paesi d’Europa.

Per giunta, anche una quota del ristretto numero di imprese italiane di eccellenza dovrà misurarsi con costose riconversioni produttive. Basti pensare a quelle imprese, operanti nei comparti della meccanica di precisione o in comparti contigui, che presiedono fasi produttive ad alto contenuto tecnologico nelle catene internazionali ed europee dell’automotive e che dovranno misurarsi con il passaggio alla produzione di auto elettriche. In secondo luogo, ancor più degli altri grandi Paesi europei, l’Italia ha mercati finanziari sottodimensionati. La schiacciante maggioranza delle imprese italiane ha una struttura finanziaria incentrata sull’autofinanziamento e sul debito bancario; nonostante la sua recente e forte crescita, il mercato dei corporate bond è ancora sottodimensionato; i mercati azionari coinvolgono un ristretto numero di imprese private nazionali; gli investitori istituzionali sono deboli e hanno allocazioni di portafoglio molto prudenziali.

Una tale articolazione finanziaria, che si accompagna ad assetti proprietari incentrati sulla figura dell’imprenditore capo-famiglia (o padre-padrone), è inadeguata per rendere disponibili le risorse necessarie alle ristrutturazioni, aggregazioni e innovazioni tecnologiche. Ne deriva che la già difficile scommessa di realizzare gli investimenti pubblici, inseriti nel PNRR, si combina con un insufficiente sostegno agli ingenti investimenti privati che sarebbero necessari per completare cambiamenti così profondi.

Infine, il mercato italiano del lavoro è caratterizzato da uno dei più bassi tassi di attività fra i Paesi economicamente avanzati; per giunta, la domanda di lavoro penalizza i giovani e le figure a più elevata professionalizzazione e l’offerta di lavoro denuncia una forte incidenza di lavoratori maturi o anziani con competenze tradizionali e di lavoratori con bassa educazione e con basse qualifiche. A fronte delle radicali riorganizzazioni produttive imposte dalle transizioni “verde” e “digitale” queste caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro causano “colli di bottiglia” molto distorsivi.

Il PNRR italiano riconosce le tre debolezze esaminate nel disegno delle riforme generali che si propone di realizzare. Tuttavia, diversamente da quanto sarebbe auspicabile, non alloca risorse significative per incentivare la ristrutturazione dell’apparato produttivo nazionale e per facilitare una maggiore articolazione dei mercati finanziari. Per giunta, oltre a essere quantitativamente insufficienti, le risorse destinate all’educazione dei giovani e alla formazione e riqualificazione dei lavoratori non rispondono a disegni ben definiti e sistematici.

 

CONCLUSIONI. Le ultime considerazioni potrebbero suggerire che il Governo italiano si sia scontrato con vincoli quantitativi stringenti. Al contrario, sia nella gestione della pandemia che nella stesura del PNRR e di iniziative normative nazionali, l’Italia ha puntato – forse inevitabilmente – su forti e poco selettivi incrementi della spesa pubblica al fine di sostenere i redditi delle imprese e delle famiglie. Così, nonostante il già abnorme livello nel rapporto fra debito pubblico e PIL preesistente alla pandemia, il nostro è stato il Paese membro dell’euro area che ha fatto segnare il maggior incremento di tale rapporto nel 2020. Inoltre, come già ricordato, l’Italia è il maggiore beneficiario del PNRR (con circa il 28% del totale dei fondi a disposizione) e ha scelto – diversamente da tutti gli altri grandi Paesi europei – di utilizzare non solo i relativi benefici (69 miliardi di euro ai prezzi di fine 2018) ma anche l’intero ammontare dei relativi prestiti (122,5 miliardi sempre ai prezzi di fine 2018). Infine, il Governo italiano ha costituito un Fondo nazionale aggiuntivo per oltre 30 miliardi di euro e ha varato un Documento di economia e finanza (DEF) e una proposta di Legge di bilancio che prevedono consistenti spese pubbliche in disavanzo.

Se tale ingente ammontare di risorse sarà effettivamente erogato dalla UE (per la parte di sua competenza) ma non sarà utilizzato dall’Italia in modo efficace ed efficiente, dopo il 2023 il rischio è di ritrovarsi con un Paese che sarà ancora più indebitato ma che non avrà rafforzato il proprio tasso potenziale di crescita.

Questa eventualità è molto preoccupante perché, nel 2023, verranno reintrodotte – pur se in forma rivista – le regole fiscali europee riguardanti i bilanci nazionali e vi sarà un rallentamento (se non un cambiamento di segno) nella politica monetaria espansiva attuata negli ultimi sette anni dalla Banca centrale europea.

Ciò rende ancora più necessario superare la prima criticità del PNRR italiano (progettazione, somme non spese, tempi di realizzazione dei progetti, obiettivi da raggiungere) e richiede l’individuazione di un punto di equilibrio fra sostegno alla crescita economica e riequilibrio dei conti pubblici, così da evitare che la dinamica del debito e della spesa pubblica si configurino come un secondo fattore di criticità.

Chi scrive ha molte riserve sulla capacità di questo Governo di leggere ed analizzare le criticità per farne una opportunità di crescita e sviluppo, temiamo, invece, che alla fine di questa discesa nel PNRR troveremo un muro che ci farà molto male. Speriamo di sbagliare ma tra uno o due semestri saremo qui a leccarci le ferite e pagare debiti per molti e molti anni.

Giovanni De Falco e Stefano Dumontet
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