Forse pochi conoscono il lungo processo che ha portato la ricerca italiana delle Scienze della Terra all’attuale fase di sviluppo, dopo il lungo periodo di stagnazione prodotto dal secondo conflitto mondiale. Al termine della guerra, gli obiettivi industriali e militari delle potenze che emersero dal conflitto mondiale portarono tali potenze ad avviare un’intensa esplorazione dei fondi oceanici alla ricerca di risorse petrolifere e minerarie. Inoltre durante la “guerra fredda” tra URSS e USA  con i Paesi del Patto Atlantico, venuta meno l’accordo per un controllo reciproco dell’armamento nucleare, gli USA realizzarono una rete sismica mondiale nel 1962 per rilevare le esplosioni nucleari sotterranee effettuate dall’URSS. Alla rete mondiale si aggiunse nel 1968 un centro di monitoraggio sismico, con gli stessi obiettivi, in Norvegia nei pressi di Oslo (NORSAR = Norvergian Seismic Array)  e si realizzò un centro di ricerca  in Svezia per lo studio  dei segnali sismici per distinguere le oscillazioni prodotte dalle esplosioni nucleari sotterranee, da quelle generate dai terremoti. Le analisi dei terremoti registrati in tali reti, unitamente ai risultati delle indagini effettuate dalle navi oceanografiche portarono un contributo prezioso per la crescita della conoscenza della struttura e della dinamica del guscio esterno della Terra (Litosfera) e alla nascita della Teoria della Tettonica a Zolle o Tettonica Globale. Tale Teoria introdusse un nuovo paradigma nelle Scienze della Terra, una vera e propria rivoluzione scientifica, e produsse un modello della dinamica della Litosfera  negli ultimi 200 milioni di anni, con la  formazione delle catene montuose, dei vulcani e della sismicità.

La Teoria ebbe il suo riconoscimento formale nel 1971 a Mosca nel corso di un Congresso internazionale, alla conclusione di un Progetto di Ricerca sul Mantello Superiore che si era sviluppato negli anni ’60 (UMP = Upper Mantle Project). In quegli anni in Italia lo sviluppo della ricerca nel settore delle Scienze della Terra si presentava  a macchia di leopardo, con alcuni centri di ricerca che operavano su tematiche avanzate, altri erano in ritardo rispetto ai paesi più avanzati (USA, URSS, Giappone, Inghilterra, Francia, Germania). La ricerca in sismologia, fatte salve alcune eccellenze dovute a singoli ricercatori, era in ritardo. I terremoti che colpirono la Campania nel 1962, con epicentro ai confini tra le province di Avellino e Benevento, e il Belice nel 1968, furono studiati con pochi mezzi e strumentazione non al passo con lo sviluppo tecnologico in atto. La svolta culturale nel nostro paese sui rischi sismico e vulcanico si ebbe con la crisi  bradisismica del 1970. Il fenomeno trovò la comunità scientifica impreparata ma il clamore dell’evento produsse un sussulto  negli studiosi che avviarono una svolta profonda nella ricerca geologica, vulcanologica e sismologica. Lungo questo percorso la comunità scientifica che operava in diversi centri di ricerca, formata da geologi, vulcanologi, sismologi, ingegneri, urbanisti, matematici, storici si organizzò in un progetto del CNR finalizzato alla mitigazione dei rischi sismico e vulcanico. Su queste tematiche l’Italia farà un salto di qualità e avrà una posizione di avanguardia nello studio delle aree sismiche e vulcaniche pericolose. La prima esperienza del Gruppo di ricerca, costituitosi nel 1976, avverrà con il terremoto che quell’anno colpì il Friuli, mostrando elevate competenze scientifiche tra i suoi componenti, cancellando i ritardi tecnico-scientifici rilevati nei decenni precedenti.

Ma l’evento che sancì la definitiva maturazione dell’organizzazione della ricerca scientifica in Italia nella mitigazione del rischio sismico si avrà con il terremoto del 23 novembre 1980  che si sviluppò in  Campania e  Basilicata. Da questa esperienza e da una geniale intuizione dell’On. Giuseppe Zamberletti, nascerà nel nostro paese la Protezione Civile. Il terremoto del 23 novembre del 1980 è ricordato come un episodio drammatico della storia naturale e civile della nostra Penisola, con la descrizione degli episodi che  hanno maggiormente colpito la nostra memoria, in parte sbiaditi per il tempo trascorso. A 40 anni dal terremoto  le conoscenze sulla sismicità della penisola italiana e l’organizzazione della comunità scientifica in Italia, nella difesa dai terremoti, hanno raggiunto livelli che pongono il nostro paese all’avanguardia nella mitigazione del rischio sismico. Ma il nostro paese ha la peculiarità, rispetto ad altre aree sismiche di dover difendere un patrimonio culturale fragile che si sviluppa lungo tutto l’asse della Penisola dalla Sicilia al Friuli, con borghi ricchi di beni materiali e immateriali. Impegno gravoso, quindi non ci si può cullare nei successi ottenuti in questi decenni. Occorre un cambio di passo nella ricerca, occorre introdurre un nuovo paradigma nello studio dei terremoti. I terremoti non si studiano solo per conoscere la dinamica dei grandi corpi geologici, ma anche per difendersi dai loro effetti; si tratta di obiettivi che devono integrarsi per definire il livello di pericolosità di un sito.

La difesa dai terremoti cresce quando si sviluppa la conoscenza del meccanismo che genera il terremoto. Per tale obiettivo occorre attivare ricerche geologiche e sismologiche di grande dettaglio per fornire agli ingegneri strutturisti modelli più avanzati delle sollecitazioni sismiche al suolo, in particolare nelle aree epicentrali. Nell’Appennino non si registrano solo terremoti di elevata energia con magnitudo prossime a 7 con lunghi periodi di ritorno, ma anche terremoti di moderata magnitudo (4.0-5.0), spesso distruttivi, con frequenza non trascurabile. Le esperienze di questi anni mostrano che le accelerazioni registrate nelle aree epicentrali superano abbondantemente i livelli previsti dagli spettri della normativa sismica. Tale risultato evidenzia che il modello adottato dalla norma non è adeguato a rappresentare il processo che si genera nell’area epicentrale. Il modello considera tale processo lineare ma in realtà si è in regime non lineare con la generazione di onde anarmoniche che producono fenomeni di interferenza tali da innalzare l’ampiezza dell’oscillazione, producendo sollecitazioni al suolo non previste. Per una difesa adeguata è necessario riferirsi a dati empirici, utilizzando le registrazioni degli eventi che rappresentano la complessità del fenomeno e la sua severità.

Di norma gli effetti che si discostano da quelli previsti dal modello di propagazione lineare delle onde in un dato sito sono considerate anomalie locali e tali anomalie sono rilevate effettuando indagini di microzonazione sismica. Ma tale tecnica non può fornire un modello attendibile del quadro fenomenologico prodotto dall’evento sismico all’epicentro, perché si basa su leggi lineari mentre il processo non è lineare. La microzonazione può dare risultati utili in aree ad adeguata distanza dall’epicentro laddove il fenomeno può essere analizzato in regime lineare. In buona sostanza in aree distanti dalle sorgenti sismiche la microzonazione è un utile strumento di difesa dai terremoti, mentre nelle aree epicentrali sarà necessaria una conoscenza empirica della risposta dei siti dai dati registrati in precedenti eventi, nell’area o in aree con strutture geologiche simili. I recenti disastri in Italia centrale e nell’isola d’Ischia impegnano la comunità scientifica a discutere del futuro della difesa dai terremoti, per realizzare un profondo cambiamento  della ricerca nelle aree epicentrali.

Giuseppe Luongo
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