A colloquio con il procuratore della Repubblica aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Antonio D’Amato, da poco rientrato nella giurisdizione dopo l’esperienza al Consiglio Superiore della Magistratura. 

È sabato mattina, 11 marzo 2023 e mi trovo a Casal di Principe, nella “casa di Don Diana”; sì Don Giuseppe DIANA, il prete ucciso dalla camorra, dai casalesi. Sono qui per assistere ad una delle tante iniziative messe in campo in questi giorni e che culminano con la visita del Presidente della Repubblica, Sergio MATTARELLA, il 21 marzo, per ricordare, a 29 anni di distanza dal vile atto di sangue, la figura del prete che ebbe il coraggio di denunciare il malaffare.

Mi imbatto, fra i testimoni chiamati a condividere la propria esperienza antimafia sul campo con una nutrita comunità di studenti delle scuole superiori, nel dott. Antonio D’AMATO, magistrato di lungo corso, con alle spalle un curriculum ricco di esperienze, dalle indagini e processi di ‘ndrangheta (ha lavorato alla Procura di Palmi a partire dal 1989) a quelli relativi alla tangentopoli napoletana di fine 1900; dalle indagini sui clan di camorra dell’area stabiese a quelle sugli strutturati clan di camorra dell’area a Nord di Napoli, a quelle sui casalesi, sino alla più recente, prestigiosa esperienza come Consigliere Superiore della Magistratura.

Ci mettiamo a chiacchierare; non si tira indietro quando gli chiedo di parlare di giustizia e, in maniera ferma, esordisce: “Occorre una riscrittura della geografia giudiziaria”. Mi colpisce questo passaggio, perché più volte richiamato nel corso della conversazione. Mi colpisce, un’altra affermazione, apparentemente messa lì, quasi a caso: “Purtroppo “la mafia nel Sud uccide, mentre nel Nord investe”; comprendo, però, alla fine della conversazione, che si è trattato di un grido di allarme sulla sottovalutazione delle mafie che ancora affliggono l’Italia meridionale, proveniente da un magistrato, impegnato da sempre nel Meridione d’Italia per l’affermazione della legalità e della giustizia.

 

Il Ruolo della Giurisdizione in Italia, nel Sud, il Mezzogiorno d’Italia, e nell’Unione Europea.

Antonio D’Amato muove i primi passi in toga come PM alla procura di Palmi, nel 1989, dove trova una straordinaria sinergia professionale con l’allora Procuratore Agostino Cordova denominato “la penna d’oro”, un autentico “mastino” (così veniva definito), titolare dell’azione penale in un territorio dominato dalla ’ndrangheta e da suoi perversi intrecci con la politica. D’Amato è originario di Torre del Greco (la cittadina alle falde del Vesuvio, dove Enrico DE NICOLA pare si ritirasse nella sua villa per riflettere sulla redigenda carta costituzionale, durante il periodo in cui è stato il primo Presidente della Repubblica); è laureato in Giurisprudenza, a Napoli, alla Università Federico II; come a Napoli svolge il tirocinio di formazione. Ha frequentato il liceo sempre a Napoli presso la Scuola Militare Nunziatella di Napoli.

A Palmi, a 28 anni, inizia a coordinare le indagini e a rappresentare l’accusa al dibattimento in processi difficili. L’intensissima attività svolta nel corso del periodo in esame può dirsi equivalente, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, a più anni di servizio in sedi normali. E ciò soprattutto perché, in quel periodo a Palmi si contavano, su 33 comuni rientranti nella giurisdizione di quella Procura, 27 cosche e 50 sottocosche. Una pesante cappa di mafia rispetto alla quale i magistrati (l’organico della Procura di Palmi era costituito dal Procuratore e da tre sostituti) erano chiamati a svolgere il lavoro con uno strumentario normativo del tutto inadeguato. All’epoca, infatti, era da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale, che favoriva sì le maxi-indagini, ma non i maxi processi, che, in quel periodo a Palmi si svolgevano nei confronti di centinaia di indagati in stato di detenzione. Non va dimenticato che la legislazione antimafia voluta da Giovanni Falcone entrava in vigore solo nel 1992 e le Direzioni distrettuali Antimafia diventavano operative solo nel 1993.     

Quindi, ancor prima dell’entrata in vigore del c.d. doppio binario per i processi di mafia, il dott. D’AMATO con gli altri colleghi di quell’Ufficio si è dovuto misurare con la complessità delle indagini e dei processi riguardanti gli affari e gli affiliati di potentissime e famigerate cosche ‘ndranghetiste, quali i Pesce-Pisano-Bellocco di Rosarno, i Longo-Versace di Polistena; gli Zagari-Viola-Fazzalari contrapposti ai Grimaldi di Taurianova; i Gallico contrapposti ai Condello di Palmi. Fra le numerose indagini quella relativa alla ricostruzione della strage del “Venerdì nero” di Taurianova. Era il 2 maggio 1991, giorno in cui vennero commessi 4 omicidi in sole otto ore da parte dei killer della cosca, che il giorno immediatamente precedente aveva visto uccidere Rocco Zagari, uno dei suoi principali esponenti. Uno di tali omicidi fu particolarmente cruento: un colpo di lupara, esploso a distanza ravvicinata, aveva finito per decapitare la vittima, il cui capo venne fatto oggetto di tiro a bersaglio, dopo essere stato lanciato in aria.

Così D’Amato inizia le indagini con pochi strumenti, soprattutto normativi, a disposizione, in perfetto affiatamento con il Procuratore, riesce ad individuare in soli 7 mesi, esecutori e mandanti delle strage, capi e gregari delle cosche ‘ndranghetiste contrapposte per il dominio del territorio. Successivamente seguirono i processi ai “Colletti Bianchi”, per truffa, riciclaggio, delitti di corruzione, frodi comunitarie. Protagonista di primo ordine negli anni della Tangentopoli napoletana, dove entra a far parte del pool specializzato in indagini e processi per “delitti contro la Pubblica Amministrazione”. Qui si occupa di uno dei filoni più importanti della “Mani pulite” napoletana, sulle tangenti nel settore della sanità e non solo. Fra queste le indagini ed il processo nei confronti dell’ex re Mida della sanità, il prof. Duilio Poggiolini, l’ex Ministro della Sanità Francesco DE LORENZO. Si fa promotore di moduli investigativi orientati alla confisca dei patrimoni derivanti dalle accumulazioni di denaro illecitamente acquisito, frutto di sistematica attività corruttiva, riuscendo a recuperare oltre 90 miliardi delle vecchie lire alle casse dello Stato.  Dopo un’importante esperienza di lavoro al Ministero della Giustizia, sia presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia come Ispettore Generale, oltre che all’ufficio legislativo, rientra a Napoli, dove viene assegnato di nuovo alla Direzione distrettuale antimafia come PM anticamorra ed è qui che, nell’ambito delle inchieste da lui coordinate, viene a maturazione la collaborazione con la giustizia del “cassiere” di Michele Zagaria, Attilio PELLEGRINO. Questi meriti, l’esperienza solida acquisita sul campo, la dedizione al lavoro gli valgono la nomina a Procuratore Aggiunto a Santa Maria Capua Vetere ed infine la elezione a Consigliere del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura).

Procuratore Antonio D’Amato

Dott. D’Amato, una sua riflessione sul ruolo della Giurisdizione in Italia nel contesto nazionale, nel Sud e nell’Unione Europea?

Nelle moderne democrazie occidentali, la giurisdizione assume un ruolo centrale e decisivo per un’ordinata convivenza civile, poiché solo se essa funziona e funziona bene, rendendo giustizia in tempi ragionevoli, può ritenersi assolto il compito dello Stato nei confronti del cittadino, far rispettare i diritti che a ciascuno di noi vengono riconosciuti dalla legge, a sua volta, votata dal Parlamento.

In altri termini, se non posso esercitare il diritto che mi viene riconosciuto dall’ordinamento, perché qualcuno me lo impedisce, devo poter ricorrere ad un giudice. Dal giudice mi aspetto una decisione che ristabilisca la legalità delle situazioni giuridiche soggettive; e questo tanto nel civile quanto nel penale. Occorre altresì che le sentenze, una vota pronunciate, vengano eseguite e, nel settore penale, attraverso la espiazione della pena che deve sempre assolvere alla sua funzione rieducativa, come richiesto dalla Costituzione. Una moderna, compiuta democrazia è tale se la giustizia, amministrata nel nome del popolo, viene resa in tempi ragionevoli e se il sistema carcerario è strutturato in maniera tale da assicurare la rieducazione della pena. Ora, è opinione comune che in Italia la giustizia, ed ora si sono messi, purtroppo, anche gli effetti della pandemia da Covid-19- la giustizia non funziona bene; arriva in ritardo, quando arriva.

Quelli della giustizia sono mali atavici, collegati ad una sistematica destinazione ad essa di risorse scarse. Certo, i governi che si sono succeduti hanno fatto molto, ma, se mi è consentita una riflessione che trascenda le contingenze, sarebbe ora di varare riforme che vadano oltre gli aspetti del processo civile e di quello penale e prendere coscienza della inadeguatezza del modo in cui è distribuita la giustizia sul territorio italiano: occorre riscrivere la geografia giudiziaria. Siamo nel 2023 e ancora assistiamo, accanto a grossi uffici giudiziari con oltre trecento magistrati (penso ai tribunali metropolitani come Napoli, Roma, Milano, Palermo), a tribunali di piccolissime dimensioni con appena una dozzina di magistrati ovvero a Procure con meno di otto sostituti. Uffici così piccoli che l’assenza temporanea anche di poche settimane o di pochi mesi di uno o due magistrati è idonea a generare disservizi e ritardi che si cumulano, incidendo sulla ragionevole durata dei processi.

 

Questo cosa ha comportato? E secondo lei come vede il futuro nella Magistratura, come dovrebbe essere “domani” la giurisdizione?.

L’esperienza ordinamentale al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) mi ha dato la possibilità di conoscere, da un osservatorio privilegiato, quasi tutte le realtà giudiziarie italiane, che, come dicevo, sono caratterizzate da una estrema eterogeneità delle loro dimensioni. Una caratteristica che mi ha molto colpito; si tenga conto che buona parte di siffatti piccoli Tribunali si trova anche al Sud. Ci sono due immediate ricadute, come effetto di tali disomogenee realtà.

La prima: le circolari che vengono elaborate dal CSM, con funzioni di indirizzo per i magistrati, sono le stesse per uffici di piccole, per quelli di medie e anche per quelli di grandi dimensioni. È di intuitiva evidenza la diseconomia che ne deriva. È vero che il Consiglio Superiore della Magistratura, a tali fini, prevede “sfumature” in ragione delle dimensioni degli uffici; cionondimeno, per esigenze di semplificazione e di uniformità sul territorio nazionale, si dovrebbe tendere a istituire uffici giudiziari fra di loro omogenei.

La seconda, negativa, ricaduta attiene alla circostanza che le sedi piccole, soprattutto quelle al Sud, sono sedi tradizionalmente disagiate, caratterizzate da una particolare turnazione di Magistrati giovani, molti dei quali vanno in tali sedi come prima esperienza; sovente lasciati da soli, per cui non vedono l’ora di rientrare, com’è giusto che sia, nelle sedi di provenienza ovvero in sedi più attrezzate, più strutturate. Questa elevata mobilità è alla base dell’accumulo di arretrato.

Quindi lei cosa propone?

Ci vorrebbe una semplificazione. È giunto il momento di una revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che deve passare attraverso una raccolta di dati statistici certi (carichi di lavoro e piante organiche), da parte del Ministero, che stia alla base della istituzione di uffici giudiziari equi-dimensionati fra di loro. Bisognerebbe avere tutte Corti D’Appello, tutti i Tribunali caratterizzati tendenzialmente dallo stesso numero di Magistrati. Oggi questo, non solo, non si registra; ma si verificano delle scelte schizofreniche, che si riverberano sulla qualità della giurisdizione e sul modo in cui i magistrati vengono percepiti dall’opinione pubblica.

Pensiamo, per un attimo, alla realtà napoletana: da un lato, il Tribunale di Napoli con oltre trecento magistrati in pianta organica a fronte di una popolazione residente di 1 milione e oltre 300 mila persone; dall’altro, il Tribunale di Napoli Nord, nato nel 2013, dove si registra una pianta organica di meno di 90 magistrati a fronte di una popolazione residente di circa 1 milione di abitanti. I dati parlano da soli; non hanno bisogno di essere commentati.

 

Dott. D’Amato, lei ha affermato che ci sarebbe venuta l’ora di riscrivere la geografia giudiziaria. In che modo? Riusciamo a lanciare qualche idea al riguardo?

Questo è un passaggio tecnico, molto tecnico; proverò, tuttavia, ad illustrare la mia proposta, che ho già peraltro, rappresentato nella competente sede consiliare. Accanto alla istituzione di uffici giudiziari tendenzialmente omogenei fra di loro, occorrerebbe iniziare a rielaborare le competenze dei giudici in chiave distrettuale. È sufficiente, al riguardo, ricordare che il nostro ordinamento già conosce competenze distrettuali e che, nell’ultimo trentennio, la tendenza del legislatore si è accentuata in questa direzione: si pensi, ad esempio, al Tribunale del Riesame; al Tribunale delle imprese (addirittura regionale); al Tribunale dei minorenni; per non parlare delle Procure distrettuali, sedi delle direzioni distrettuali antimafia, che si occupano in maniera esclusiva anche di terrorismo, di frodi informatiche. In altri termini tutte queste competenze sono state radicate in sede distrettuale, al fine di conseguire, evidentemente, l’obiettivo, importantissimo, della specializzazione in siffatte materie, attraverso le creazioni di gruppi di lavoro di magistrati specializzati, destinati per un congruo periodo di tempo ad occuparsi di tali materie.

Si pensi ancora che, in questo momento, l’Italia come gli altri Paesi dell’UE sono impegnati nella difficile realizzazione e attuazione del Procuratore europeo (EPPO), un Ufficio che conduce le indagini ed esercita l’azione penale nei procedimenti per reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione. In sede di elaborazione di norme di adeguamento interno, si è optato per la istituzione di uffici giudiziari (macroaree) comprendenti una pluralità di distretti, presso i quali concentrare i procuratori europei delegati, individuando 8 macro Procure Distrettuali. E ciò al fine di semplificare il coordinamento investigativo, oggi difficoltoso, fra le 140 Procure nazionali ed il Procuratore europeo.

Orbene, con la legge di delegazione europea (l. 127/2022) per l’anno 2021, il Governo viene delegato dal Parlamento, entro 1 anno, a distrettualizzare la competenza per i reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE.

Allora, se queste sono alcune delle coordinate normative di riferimento, non ci vedrei nulla di straordinario se si iniziasse a riflettere sulla rielaborazione della geografia giudiziaria, attraverso questa distrettualizzazione delle competenze, anche prevedendo un aumento del numero dei distretti di corte d’appello e sopprimendo gli uffici piccolissimi. Rendere omogenee le realtà giudiziarie andrebbe a salvaguardare il principio secondo cui i magistrati si distinguono fra di loro solo per funzioni, laddove tale disomogeneità sta sempre più creando le condizioni per ritenere la sussistenza di una differenza fra uffici di serie a) e dunque magistrati di serie a) e uffici con magistrati di serie b).

Tornando alla questione Meridionale, gli appetiti delle mafie verso il flusso di denaro che sta arrivando dall’Europa sono maggiori nelle sedi dell’Italia Meridionale. Eppure anche qui problemi organizzativi hanno indotto il Ministro della giustizia a rinunciare alla Procura di Catanzaro come sede dei procuratori europei delegati per i distretti di Catanzaro, Potenza, Reggio Calabria, cioè proprio in quei territori dove è più avvertito il pericolo dell’aggressione mafiosa su questi fondi. Ho sempre lavorato al Sud e l’ho fatto con grande passione e amore verso il Mezzogiorno, anche sulla base dell’educazione familiare. La “Questione Meridionale”, non è ancora risolta e avverto che manca la doverosa attenzione verso i temi del mezzogiorno.

 

Con il termine “La Legge e’ Uguale per Tutti” se un Giudice non svolge il suo dovere o commette un atto di corruzione per favorire un soggetto in un procedimento penale sbagliando sentenza, puo’ essere punito?

E ci mancherebbe! Il principio di legalità che permea la nostra costituzione esige che l’azione dei pubblici poteri, quindi, anche quello esercitato da un magistrato, trovi il proprio fondamento positivo oltre che quello negativo in una previa norma di legge; la cui violazione, anche ad opera di un magistrato, deve trovare la giusta reazione da parte dell’ordinamento, attraverso l’indagine ed il conseguente giusto processo a carico del magistrato medesimo.

 

Procuratore D’Amato ci illustra le sue radici da quando frequentava la Scuola Militare Nunziatella e quali erano all’epoca le sue aspettative future; qual è il compito del Pubblico Ministero?

La scelta di fare il pubblico ministero affonda le sue radici nel tempo; mentre ero sui banchi della Scuola Militare Nunziatella, sognavo già (avevo 16-17 anni) di fare il Pubblico Ministero e di servire in questo modo le istituzioni repubblicane. Del resto fra i miei compagni di corso, una buona parte maturava l’idea di servire le istituzioni arruolandosi e frequentando l’Accademia di Modena nell’Arma dei Carabinieri, ovvero nella Guarda di Finanza, qualcun altro nella polizia di Stato, altri ancora in Marina. Molti ex allievi li ho poi rincontrati successivamente durante il percorso della mia carriera ed e’ stata una delle esperienze più significative e belle che si possa realizzare, incontrarsi con i vecchi compagni, condividere le esperienze professionali, alla luce degli insegnamenti comuni che ci erano stati impartiti.

Quest’aspirazione a diventare Pubblico Ministero mi veniva dalla consapevolezza del ruolo fondamentale del Pubblico Ministero nel nostro ordinamento, non solo come motore delle indagini e del processo penale, ma anche come tutore dei deboli: uno dei compiti che la Legge assegna al Pubblico Ministero quando nel processo civile, negli affari di famiglia lo individua come l’Organo Pubblico che deve occuparsi della tutela delle persone incapaci e dei minori.

E quanto è stata formativa la sua prima esperienza in terra di ‘ndrangheta al suo primo incarico”.

Quando ho iniziato il percorso professionale in quei territori, non esisteva ancora la Direzione Nazionale Antimafia, né la Direzione Distrettuale Antimafia, né la Legislazione sui pentiti; non c’era uno strumentario codicistico, né penale, né processuale, né penitenziario in grado di agevolare, attraverso il coordinamento investigativo e la condivisione con altri colleghi, anche appartenenti ad uffici diversi,  le indagini di mafia. Quindi poggiava tutto sullo spirito di iniziativa dei singoli Magistrati; e questo mia autorizza a ritenere che fosse più difficile più scomodo, in allora, svolgere quel tipo di indagini. Svolgerlo in un contesto nel quale l’armamentario giuridico, la strumentazione normativa e’ pari a quella che hai per i reati comuni, significa che ti espone nella misura in cui sei costretto a fare i salti mortali: a partire dai termini delle indagini, dalla riservatezza delle indagini, alle intercettazioni telefoniche a quelle ambientali, ai termini di custodia cautelare, una normativa uguale a quella prevista per i reati comuni.

Oggi, fortunatamente, l’impianto legislativo è molto cambiato, rispetto al 1989 e lo è dal 1992/1993. La legislazione antimafia, progressivamente, si è andato affinando, sul piano penale, su quello processuale, sul piano ordinamentale, su quello penitenziario, su quella del diritto amministrativo.

Quella prima esperienza ha, ad ogni modo, segnato il mio percorso professionale, grazie anche all’esempio di magistrati più con una maggiore esperienza rispetto alla mia anziani, il cui percorso professionale, fortunatamente si incrociava con il mio e dai quali ho imparato davvero tanto, a livello umano oltre che su quello professionale. Ho imparato come ricevere testimoni, imputati e avvocati in ufficio; come scrivere un provvedimento motivato e intelligibile; come comportarsi in udienza; come trattare il rapporto con il personale amministrativo, che ha una parte fondamentale nel lavoro quotidiano dei magistrati; come impostare il rapporto con la polizia giudiziaria; come essere “daltonici” nel rapporto con la politica.  

 

Il divario tra Nord e Sud?

L’attività ordinamentale al Consiglio Superiore della Magistratura mi ha consentito di acquisire un quadro di insieme degli uffici giudiziari italiani, anche perché mi sono spesso recato ad incontrare i colleghi sul territorio, soprattutto al Sud. Sono riuscito in tal modo a guardare, da un osservatorio privilegiato formato dalla lettura dei documenti e della “viva voce” dei Magistrati che operano quotidianamente sul campo, spesso in condizioni disagiate soprattutto al Sud. Mi è rimasta impressa, allorquando nel 2021 mi ero recato nel distretto di Potenza, la circostanza, segnalatami proprio dai magistrati del posto, dell’assenza della Facoltà di Giurisprudenza. Si tratta di un dato che dovrebbe far riflettere, che priva gli uffici giudiziari di quell’apporto culturale importante nel rapporto fra uffici medesimi ed enti preposti alla formazione ed all’avvio al lavoro dei giovani.

Ancora una volta ritorna nelle parole del dott. D’Amato il riferimento alla riscrittura della geografia giudiziaria, che dovrebbe essere parametrata su come distribuiti gli altri enti e presidi di legalità che insistono sul territorio. Per realizzare tra i vari protagonisti delle istituzioni, ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze, quella sinergia, quel coordinamento così importanti nella nostra democrazia.

Il Sud è stato trascurato e continua ad esserlo. Inizialmente si era pensato, erroneamente, che la mafia fosse un problema solo del Sud. Si tratta di una valutazione fatta da chi aveva responsabilità politiche negli anni ’60, proprio nel periodo in cui si iniziava a parlare di mafia, grazie allo scossone generato dalla pubblicazione de “Il Giorno della civetta”, di Leonardo SCIASCIA. La “montagna” della Prima commissione parlamentare antimafia varò il “topolino” della prima legge sulle misure di prevenzione Antimafia: legge ebbe come effetto quello di portare a contatto le varie mafie tra di loro, proprio per l’applicazione della misura del divieto di soggiorno. Dagli anni ’70, grazie anche ad una legislazione inadeguata, del tutto inadeguata, il dilagare delle mafie non ha mai fatto registrare battute d’arresto. Purtroppo “la mafia nel Sud uccide, mentre al Nord investe”. Non e’ un problema di oggi, è un problema che gia’ esisteva prima. Ma quando noi Magistrati abbiamo cercato di farlo notare, c’erano sempre delle letture riduttive, non so se strumentali, oppure volte a contenere la percezione del problema per evitare di seminare allarmismi. Sta di fatto che, di là dalle buone intenzioni nella lettura riduttiva del fenomeno, e’ stato praticato un registro di narrazione che ha fatto sottovalutare il problema.

 

Cosa si può fare per migliorare il nostro SUD sotto il profilo legalità?

Non basta la sola risposta giudiziaria. Il diritto sanzionatorio non serve da solo a garantire la ordinata convivenza civile.

C’è un grosso problema, un problema serio: è quello del lavoro ai giovani. Solo in questo modo si restituirebbe la dignità a tutti i giovani, eliminando in radice le condizioni, oggi favorevoli, al loro reclutamento nelle organizzazioni mafiose: formazione (scuole, università) e lavoro. Non dimentichiamo che la Repubblica Italiana e’ fondata sul lavoro.

Ritengo che si tratta di un risultato a portata di mano, ma ad una condizione: gli stati membri dell’Unione dovrebbero partire dalla premessa di una Europa paragonata ad una catena, il cui anello più debole è il Sud, per poi a rafforzarlo, nella consapevolezza che, così facendo, a rafforzarsi è l’Europa nel suo insieme.

Valentina Busiello

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