Questa volta il nostro viandante Antonio Corvino, ha lasciato i cammini del Sud e si è immerso nella realtà urbana di Milano, scoprendo tante nuove realtà e tante presenze del Mezzogiorno. Una città ormai in gran parte proprietà di non milanesi e proiettata verso un futuro urbanistico innovativo con un nuovo centro direzionale. Torna alla mente un confronto con il centro direzionale di una altra grande città, come Napoli che non ha ancora manifestato una propria identità urbanistica in sintonia con il resto della città. (N.d.R)

 

Mancavo da Milano dal 2015. Anno dell’Expo. Lontana, completamente avulsa dalla Città, l’Expo. Alla fine non se n’è fatto nulla dei progetti di riutilizzo. Abbandonata lì a deperire, mi dice Vincenzo, amico di vecchia data, uno di quegli antichi giovani meridionali che già un po’ di tempo fa (o parecchio) avevano cominciato ad emigrare, espatriare, abbandonare, come più vi pare, lasciando il Sud, la famiglia, il golfo di Napoli e se ne era partito per Milano. Mica con la valigia di cartone. No, no, laurea, professione, esperienza nel campo del giornalismo professionistico attento alle questioni economiche e sociali oltre che culturali, ed un bel futuro davanti. D’altra parte sono molti gli uomini e donne di successo con pedigree meridionale a Milano. Vincenzo poi pensò bene di trasferirsi con la fidanzata, lei pure meridionale della sponda adriatica questa volta e con tanto di curriculum nella scienza che allora si andava affermando del marketing e della comunicazione ben integrate tra loro mica separate e ognuna per suo conto. Una volta a Milano divennero marito e   moglie e misero su anche una bella famiglia con tanto di figli di belle speranze e pronti ad espatriare pure loro, magari in estremo oriente in ossequio al villaggio globale che non conosce limiti e confini.

Insomma oggi è giornata di relax per me e di begli incontri che sanno di echi passati e gioia presente. E ci voleva, dopo la serata di ieri, domenica delle palme,  dedicata alla presentazione di “Cammini a Sud” io pensavo, in realtà consacrata al sermone del padre sacerdote levatosi a celebrare la beatitudine di quanti si affidano al Signore  ed a benedire le palme, quelle pure dedicate al Signore  ed al suo temporaneo trionfo, stiracchiando fino a travisarlo  il mio pensiero sulla cultura greca radicata nel bel mezzo  del Mediterraneo e sintetizzata nel senso del limite e della misura, da riscoprire, io avevo enfaticamente enunciato sulle orme di Camus e del suo  « l’Homme révolté », nel coraggio e nella volontà di ribellarsi quali scelte prodromiche per salvare l’Umanità dalle derive del caravanserraglio… altro che  rifugiarsi nelle braccia del Padre o del Figlio come sosteneva il rappresentante della chiesa. Questi peraltro mi pareva si assumesse il compito di tenere unita la comunità lì raccolta, o almeno una parte di essa, benedicendo i ramoscelli d’olivo che, avrei voluto dirgli, di certo non potevano venire dalla Messapia,  visto che da quelle parti oltre venti milioni di alberi risultano essere stati  distrutti dalla xilella, come dicono le fonti più o meno ufficiali, o dall’abbandono, più verosimilmente, delle campagne, come a me pare. 

Questa mattina Vincenzo è passato a prendermi dal mio albergo in scooter e mi ha portato a vedere il futuro di Milano proprio nel cuore della città, altro che, cammina, cammina, fuori dalla cinta urbana dove pensarono bene di allocare l’Expo 2015. Abbiamo lasciato lo scooter in garage e siamo usciti a piedi. Un assaggio del futuro io l’avevo avuto già dalle vetrate di casa di Vincenzo. Grattacieli e pinnacoli fantasiosi, figure geometriche ardite protese verso il cielo componevano davvero una bella vista. Vista urbana, sicuramente, ma di grande effetto e suggestione. Roba da andare assolutamente a vedere.

E soprattutto per uno come me, esiliatosi o  isolatosi in campagna a due passi del mare e a quattro dal vecchio villaggio dei pescatori che d’estate diventa invivibile ma d’inverno torna intimo e direi primordiale nella dimensione e pure ancestrale nei valori. Tutta roba non solo sconosciuta alle metropoli ma addirittura negata, rimossa. Il mio primo pensiero era stato quello di raggiungere piazza Duomo, fermarmi davanti a quel miracolo gotico tutto pinnacoli con la Madonnina d’oro su quello più alto e incantarmi. Erano tanti anni che non mi producevo in quell’esercizio di estasi estetica. Non che io ami particolarmente il gotico nordico. Troppo ardito e preoccupato di schiacciare la tua dimensione umana davanti all’irraggiungibile grandezza di dio.

 

Io amavo il Romanico, essenziale, puro, dalle linee semplici e le altezze giuste ad esaltare la raggiunta pacificazione tra dio e gli uomini. Ma il duomo di Milano non è Gand, l’immensa cattedrale gotica di Gand. Ha qualcosa di familiare che me lo rende simpatico ed anche la mia dialettica con   Dio me la fa avvertire  con minore acredine. In più c’è la storia del potere antico concentrato da quelle  parti. Il potere come lo abbiamo conosciuto dal lontano Medio Evo sino a ieri. Sempre con lo sguardo perduto nella fantasmagoria dei pinnacoli ti sposti sulla piazza e… boom sei nella Galleria. La più bella galleria del Mondo, essendo la più bella d’Italia. Va beh, c’è anche la galleria di Napoli tra il teatro San Carlo e via Toledo, ma non sottilizziamo. Tu ci entri e passi dall’incantamento mistico-religioso a quello laico-razionale. Non è roba da poco. Poi esci dalla Galleria e ti ritrovi nel quadrilatero più potente e famoso sempre d’Italia.

La Scala, il municipio, il tempio della finanza. So già che Vincenzo e pure voi che state leggendo siete pronti a correggermi. La finanza non abita più da quelle parti. Il palazzo della Banca Commerciale è stato trasformato nelle Gallerie d’Italia, ed è già tanto che Banca Intesa , erede o acquirente della gloriosa Banca Commerciale, lo abbia trasformato in grandiosa pinacoteca e non in un albergo  per straricchi secondo i canoni della “Gentrification”. E poi mi sarei mosso verso il castello Sforzesco, o dopo aver fatto un’incursione a Brera, la più raffinata pinacoteca cittadina, anzi d’Europa e del mondo con il permesso degli Uffizi e del Louvre. Insomna il pensiero di immergermi nel vecchio rassicurante passato di Milano era stimolante, anzi era proprio struggente, dopo dieci anni di assenza. Magari avrei trovato il tempo anche di andare a vedere finalmente l’Ultima Cena di Leonardo che non ho ancora contemplato dal vivo se si esclude qualche rapida visita all’epoca della prima gioventù.

E però mi intrigavano quelle guglie, quei grattacieli tutti cristallo e acciaio.

“É il futuro di Milano fatto presente” mi aveva detto Vincenzo mentre con lo sguardo vagavo nel cielo attraverso le vetrate di casa sua. “E siamo nel cuore di Milano. Si va a piedi” mi dice una volta scesi di casa. “La vedi lì in fondo quella porta monumentale da dove siamo passati ieri sera? É Porta Garibaldi. Dobbiamo fare solo il viale che da essa si diparte, percorrerlo tutto e siamo ai margini del nuovo cuore di Milano. E tu devi venire a vederlo. Per il resto ti basti pensare che dall’altra parte di Porta Garibaldi ritrovi la vecchia, grande, storica, affascinante, superata Metropoli milanese.”

Mi dice proprio così “superata”. “La gente viene tutta da questa parte anche la movida si è spostata.” E così dicendo siamo arrivati a ridosso di questo centro direzionale/cuore pulsante della città futura. Attraversiamo Piazza Gae Gaulenti, l’architetto che ha ripensato l’intera area e che ha inondato di femminilità l’intera area, dove distese di acqua in superficie , trasparenze filigranate in aria e ardite torri in cielo hanno ridisegnato la stessa fisionomia, la linea d’orizzonte del profilo milanese.

Qui c’è concentrato il potere finanziario: Il grattacielo di UniCredit con l’ardita punta che si conficca nel cielo come la lancia di Achille nell’innocente e delicato collo di Ettore, c’è il palazzo possente squadrato di Banca Intesa. Da sole esauriscono il panorama della finanza nazionale. E c’è Unipol con una torre affusolata composta con una successione armoniosa di rombi di cristallo tenuti uniti da cornici di acciaio. Celebra la sua potenza impressionante se si pensa che Unipol era nata negli anni 60/70 come compagnia di assicurazione dei militanti socialisti e comunisti, anche, per una questione di fede ideologica. Oggi è il solo gigante assicurativo con i piedi nella finanza. Non chiedete ai vertici se conoscono le fondamenta di quel grattacielo. Sbaglierebbero la risposta, ahimè. 

Noi intanto continuiamo a passeggiare. É davvero qualcosa di incredibile. Gli spazi sono amici e ti invitano ad andare. Non ci sono automobili e la gente è rilassata. Giardini e prati configurano spazi leggiadri che invitano a sedersi, ammirare il cielo, a bearsi delle linee architettoniche tutte giocate in verticale ma attente alle simmetrie in un gioco di armonie suadente che non forza la vista e nemmeno il disegno.

Qui gli architetti han dato il meglio di sé. Han conservato le vecchie basse case del primo novecento a fare da pendant con le altezze vertiginose. Si, é straordinaria questa commistione di passato e futuro tenuti a braccetto. Mi viene in mente il labirinto dei vicoli di Tokio che si stendono a ridosso dei grattacieli e le case basse che ne tracciano inusuali cornici. Insomma Milano si è data una mossa. E che mossa! Ha ribadito, ove ve ne fosse stato bisogno, il suo primato.

Angela, mi sembra particolarmente orgogliosa ed è felice che io pure non riesca a staccare lo sguardo dal cielo. Mi viene il sospetto che si senta milanese. “Oggi, la giornata è bellissima” mi dice mentre con il braccio teso mi  mostra l’orizzonte lontano “guarda si vedono li montagne. Sono tutte innevate. Il cielo è per una volta trasparente. Il vento ha pulito l’aria. É bellissimo.” Devo ammettere che l’aria é frizzante. Profuma di primavera. Defilato, in disparte rispetto alle torri orgogliose, vi è il bosco verticale… in maniera irriverente penso alla foresta di Machbet di Shaespeariana memoria. Ma questo bosco non si muove e non minaccia destini funerei, anzi. Si arrampica tra le terrazze ed i balconi di un palazzo dalla dolce impostazione tradizionale quanto a struttura, alto, si, più del normale, ma la  sua straordinaria carattetistica risiede in quella vegetazione intricata che fa pensare ad una vera e propria foresta urbana in verticale.

E tra i grattacieli innamorati della loro immagine come tanti Narciso che si vedono riflessi negli occhi di chi li guarda, grandi spazi costellati di piante ed alberi che han definito come la biblioteca botanica fatta di centinaia di esemplari  di specie rare e comuni. “Una sorta di Central Park  in miniatura” osserva Vincenzo attento a non enfatizzare una realtà che rimane comunque a misura d’uomo e soprattutto straordinariamente integrata con la città. Un  ponte pedonale scavalca l’arteria che attraversa il nuovo quartiere legandolo al resto della viabilità. Devo dire che l’effetto estetico è entusiasmante. Da un’ora stiamo camminando avvolti nella bellezza. L’idea della città frenetica, stressata e stressante qui svanisce per fare posto a qualcosa di profondamente coerente con i giusti tempi delle persone. E per un attimo mi ritrovo  nel centro direzionale di Napoli.

Anche lì torri di acciaio e di cristallo han ridisegnato il profilo della città. Del cuore della città. Perché il centro direzionale a Napoli, come a Milano, è dentro la città. Ma a differenza di quanto avviene a Milano, a Napoli esso  è chiuso a formare  una sorta di caravanserraglio che lo rende  addirittura ostile alla Città. Manca il verde, mancano gli alberi ed i prati, manca l’acqua ed i giochi delle fontane ma soprattutto mancano le opere di connessione del Centro direzionale con il resto della città. E manca la gente che, appena chiusi  gli uffici, scappa via rendendo  quel pezzo estraneo alla città. E mi dico che basterebbe poco per trasformare quella foresta di torri in un meraviglioso bosco urbano. Basterebbe fare una visita a Milano e mettere a frutto le risorse europee per la riqualificazione delle aree metropolitane.

A Milano dove oggi insiste il nuovo quartiere, mi racconta ancora Vincenzo, vi era un’area degradata.  Speculazione, fallimenti e abbandono avevano condannato quello spazio cittadino al degrado. Negli anni ottanta apparteneva ad uno dei più potenti immobiliaristi con interessi nella finanza e nelle banche, tal Ligresti, mi rammenta Vincenzo, un nome venerato e temuto un tempo, oggi dimenticato, andato in malora. Quindi l’idea di riqualificare l’area.

Non posso non chiedermi da dove sono giunte le risorse finanziarie per un’operazione di dimensioni davvero gigantesche. Per quanto mi sforzi non riesco ad immaginare capitani d’industria nostrani alla testa dell’avventura. Le banche dal canto loro sono assai guardinghe e si muovono zavorrate da più di qualche stivale di piombo nel loro incedere. La risposta me la fornisce ancora una volta il mio amico Vincenzo, un napoletano ormai divenuto milanese. “I fondi arabi. I fondi sovrani arabi hanno comprato tutto e realizzato quel che vedi” mi spiega dando un’esauriente risposta ai miei dubbi.

“Il fondo sovrano del Qatar è il padrone di tutto.” “Insomma i milanesi rischiano di essere essi stessi stranieri in casa” rispondo. E ragiono in silenzio “ d’altronde anche i grandi marchi non sono più milanesi e nemmeno le squadre di calcio”. C’è da preoccuparsi. Altro che, se c’è da preoccuparsi. Se Milano è il motore d’Italia, siamo messi male in prospettiva. E penso che questo Paese dovrebbe ripensare il suo modo di essere dando una svolta indispensabile ormai e riunificando la propria storia e mettendosi a camminare compatto una volta per tutte. Emulando Milano per la sua capacità di accettare le sfide del futuro ed emulando Napoli nel non cedere alla tentazione di vendere la propria storia a chicchessia magari cogliendo a beneficio reciproco il  meglio di ciascuno.

 

Post Scriptum

A Milano é in atto un processo di Gentrification  sofisticato ed anche esteticamente accattivante che, tuttavia,  annulla la dimensione popolare confinandola nelle periferie lontane e creando speculari caravanserragli. Da una parte quelli dove si concentra la manifestazione della ricchezza e del potere sempre più rarefatta la prima ed invisibile il secondo e dall’altra dove si accatasta la sofferenza e la povertà. La prospettiva é comunque quella di un impoverimento complessivo proiettato in avanti e quindi non visibile nell’immediato. I fondi sovrani arabi o cinesi come la finanza euro-statunitense,  veri registi dell’organizzazione mondiale odierna, non hanno radici e per loro  natura sono nomadi. Il problema è che quando si spostano lasciano macerie e degrado.

Ovvio, quindi, che preoccupi una Milano offerta  come un drink da bere a chi è disposto ad inondarti di soldi ma non a diventare milanese e preoccupa ancor più se i milanesi non se ne rendono conto. La cintura con le province virtuose e lavoratrici sono preoccupate di conservare il proprio e sopravvivere non sono più poderosi affluenti del grande fiume milanese. Il paese delle famose PMI del secolo scorso che facevano corona alle grandi le quali, a loro volta, si identificavano con il Paese e le  città ( vedi Agnelli e Torino, Falk, Ligresti, Cuccia a Milano et cetera) non esistono più. La Confindustria, specchio di  quel sistema é ormai un bastimento che si riflette nel passato e affida al cosiddetto mercato internazionale ( leggi Monaco e la Baviera piuttosto che Pechino e Shanghai ) le sue chances. Ahimè non gioca un ruolo da protagonista e come il resto del paese manca di un’idea di futuro.

La visione di Mattei e di Olivetti che aveva  proiettato l’Italia  all’avanguardia mondiale del progresso è stata falciata via. Le grandi imprese han rotto il sodalizio con il Paese, quelle poche che sono sopravvissute, mentre le altre ( nella chimica per esempio ma anche nell’alimentare  e nella metalmeccanica per non parlare della digitalizzazione, della tecnologia e del nucleare per il quale il Paese decise il suicidio) sono state ridimensionate e spazzate via. Conclusione? L’industria  nazionale ( e per essa quel che resta dell’imprenditoria) ha legato i suoi destini alla domanda tedesca o cinese ma non produce paradigmi o modelli in grado di generare sviluppo. E questo è preoccupante. Volando in aereo nella fase di avvicinamento a Milano le zone industriali  ed i capannoni a ridosso delle città lombarde non mi hanno dato l’impressione di un esercito tirato a lucido ma quella di  reparti stanchi preoccupati di serrare le linee per resistere. Ecco perché Milano e Napoli mi sembrano speculari e complementari al tempo stesso. Si può immaginare uno sviluppo legato al Paese  piuttosto che seguire la deriva pericolosa della finanza nomade, riunificandolo il Paese e prendendo il meglio da ogni parte, il che, alla fine, significa restituirgli la sua ricchezza più grande, la capacità di generare e/o coltivare civiltà e progresso legati all’uomo, virtù  che ha reso l’Italia Mediterranea  protagonista sino a ieri…

Antonio Corvino
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