Il Sistema Pubblico del ‘900 predica coesione e produce dispersione

Il mondo da tempo sta vivendo profondi cambiamenti che portano a fenomeni o di partecipazione eccessiva, a volte violenta e aggressiva, o  a deficit di partecipazione, come il quorum dei votanti in Italia, così come in altri paesi. Sicuramente viviamo un’epoca di transizione in cui l’informazione, la sua condivisione, la sua alterazione, la sua entropia e i nuovi strumenti di diffusione giocano un ruolo non secondario. La sociologia, la teoria dell’informazione, la teoria delle reti, la topologia sociale, sono tutti gli strumenti di pensiero che cercano di individuare nuovi modelli di comportamento. Le strutture organizzative e normative dell’apparato pubblico in Italia, come in altri paesi, dimostrano la loro vetustà in relazione ai bisogni di nuova partecipazione che richiedono luoghi dove esprimere direttamente le proprie idee e necessità. I consolidati schemi di rappresentanza vanno riesaminati e adeguati alle nuove realtà. Nell’articolo che segue Osvaldo Cammarota, con una lunga esperienza maturata nei processi di coesione e partecipazione, analizza la dinamica di questi processi cercando di individuare soluzioni possibili, necessarie per un vero cambiamento.

La coesione sociale è la risorsa immateriale che conferisce maggior competitività in ogni campo della vita politica, economica, culturale e sociale del Paese, ma resta il Bene Comune più invocato e meno accumulato negli ultimi quarant’anni. Oggi la pandemia e i suoi effetti hanno reso ancor più evidente la preziosità di questa risorsa. Numerosi studi e ricerche1 hanno dato risposte ai tanti perché non si accumula capitale sociale. Sui rimedi è disponibile un’ampia e qualificata letteratura, ma, purtroppo, le azioni stentano a produrre i risultati attesi, sebbene siano spinte da decenni di politiche comunitarie che insistono sul nesso tra coesione e sviluppo. È forse utile proporre un contribuito per accrescere coscienza e consapevolezza nella società, nelle Istituzioni pubbliche e nelle classi dirigenti.

La breve trattazione che segue si propone di esaminare il ruolo e la funzione esercitati dal Sistema Pubblico nei processi di costruzione e accumulo della coesione sociale negli ultimi quarant’anni. Il Sistema Pubblico è qui inteso come l’insieme di politica, norme, apparati e procedure amministrative, così come il territorio lo vive. Poco si dirà della politica, presumendo che ai lettori poco interessi la denuncia di ben noti malfunzionamenti dei quali la politica stessa dovrebbe occuparsi e non farne propaganda solo per colludere, a fini elettorali, con interessi non sempre tendenti al bene comune.

Si vuol proporre, piuttosto, un punto di vista che scaturisce da esperienze di campo, un’analisi critica sui motivi per cui il Sistema Pubblico non produce coesione ed è rimasto cristallizzato in politiche, norme e apparati che, formatisi nel ‘900, già mostravano affanno a fine secolo. Si richiamano infine i fermenti innovativi che pure hanno animato la società italiana a metà degli anni ’90. Sono stati deboli e immediatamente contrastati, ma sono tracce di lavoro che riaffiorano. L’intento è di dare spunti di riflessione per più maturi approfondimenti. Di certo la coesione non può più essere garantita con risorse finanziarie insufficienti e mal distribuite. Un sistema pubblico modellato sulla società del ‘900, è destinato a predicare coesione e produrre dispersione.

Cenni sul Sistema Pubblico ieri, oggi e… domani?

Nel secolo scorso non era certo più agevole fare coesione. I conflitti sono stati sanguinosi: tra Est e Ovest del mondo; tra Capitale e Lavoro; tra classi sociali. Tra i blocchi contrapposti vi erano tensioni fortissime, ma all’interno di tali blocchi vi erano solide certezze e, nella progressiva riduzione di queste, la coesione era dovuta ad un’appartenenza ideologica, all’una o all’altra posizione. Il corpo sociale era diviso, ma facilmente identificabile nei suoi bisogni. La Costituzione Italiana è stata concepita in un orizzonte che traguarda questi conflitti, ma il Sistema Pubblico che si è formato in quegli anni si è costruito con risorse e metodi “spartitori”, di potere e di ricchezza: governo e sottogoverno; mediazione finanziaria dei conflitti; accordi commerciali tra Stati.

Questi metodi hanno retto fino agli anni ’70, ma poi i mutamenti epocali intervenuti a cavallo di secolo hanno fatto venir meno i presupposti e le certezze su cui erano fondati. Il crollo del muro di Berlino, la crisi del fordismo, la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia e altri eventi apparentemente separati, hanno generato grandi mutamenti sociali e una forte domanda di libertà individuali. Si è verificato il trionfo della trionfo della moltitudine2, di una pluralità di mestieri, soggetti sociali, associazioni, che hanno manifestato nuovi bisogni generati dai mutamenti intervenuti e scarsamente rappresentati dalle strutture di rappresentanza tradizionali.

Da “solida” che era, la società è diventata liquida (Bauman); il fare coesione è diventato un’impresa infinitamente più complessa. Sono andati in crisi il sistema delle rappresentanze; il welfare state; gli Stati-Nazione; la finanza pubblica; i generosi “aiuti” ottenuti in epoca di guerra fredda si sono rivelati debiti, non solo finanziari. Emblematica è l’immagine dello “specchio rotto”3con cui si rappresentò lo stato della società italiana, un’istantanea che fotografò l’analisi anticipata dall’ISTAT in un rapporto del ‘93 in cui la definiva densa e complessa. Il Sistema Pubblico ricalca quell’immagine. La frammentazione dello Stato è oggi sotto gli occhi di tutti. Si manifesta plasticamente nelle incongruenze che affiorano nel trattare le dure conseguenze della pandemia e dei suoi effetti sull’economia e nella società.

Le riforme concepite negli anni ’70 potevano forse dare un assetto più adeguato a fronteggiare gli eventi dei decenni successivi, ma la loro attuazione è risultata confusa e contraddittoria, fino a rendere evanescente il principio e il concetto di unitarietà dello Stato. Il malfunzionamento del Sistema Pubblico, infatti, è oggi segnato da confusioni normative, settorialismi, particolarismi che accrescono gli squilibri territoriali e le diseguaglianze. Un esempio a conferma viene dalla fragilità del Sistema Sanitario Nazionale, oggi a tutti evidente per gli effetti generati dalla pandemia da SARS-COVID 19. La Legge 833 del 1978 perseguiva il superamento degli squilibri territoriali di salute e la disomogeneità del sistema mutualistico al fine di attuare l’Art. 32 della Costituzione; prevedeva l’armatura di una Sanità Territoriale per la prevenzione delle malattie e la cura alle persone.

Una previsione che, oggi, avrebbe allentato la pressione sulle strutture ospedaliere, avrebbe ridotto le conseguenze tragiche che ne sono derivate, ivi compresa la ridotta capacità di cura di altre gravi patologie. Il progressivo smantellamento di quell’impianto di riforma è a tutti noto; è prevalsa la tendenza ad “aziendalizzare” la Sanità. Siamo reduci da anni di depredazioni finanziarie e di un liberismo selvaggio, improntato su vantaggi monetari e sull’efficientismo astratto dei servizi, sacrificando canoni di efficacia, di appropriatezza, di equità e universalità della cura. Altra vicenda emblematica è la deriva verso cui sono naufragate le riforme per il decentramento dello Stato che, tra l’altro, è uno dei principi fondanti del processo di unificazione europea.

Da un disegno che fondava sull’accrescimento di ruolo e responsabilità delle Autonomie Locali e delle classi dirigenti locali, si è naufragato verso idee confuse di federalismo, fino a delineare rivendicazioni di “autonomismo separatista” che solo momentaneamente si sono attenuate, forse proprio per le forti contraddizioni emerse, anche in questo campo, con la pandemia. Il regionalismo, nato su idee di decentramento dello Stato, si è tradotto nella costituzione di istituzioni e apparati pubblici che hanno riprodotto i vizi del centralismo burocratico. Il neocentralismo regionale, oltre a fallire l’obiettivo del decentramento, ha contribuito ad alimentare tensioni e conflitti tra il centro e la periferia dello Stato.

Il domani presenta il rischio di passare dallo stato liquido ad uno stato gassoso. Smarrita l’unitarietà dello Stato, il Sistema Pubblico che si è formato risulta terribilmente complicato. Ogni ministero, ogni istituzione locale, ogni settore della pubblica amministrazione, viene gestito in modo separato e, spesso, con stile padronale-feudale; le istituzioni democratiche, da luoghi di componimento dei conflitti, sono diventati poli di contesa. Nella società ciascuno si sente legittimato e talvolta è persino spinto a difendersi dalla burocrazia, additata astrattamente come un “muro di gomma” che ostacola il cammino di chiunque voglia fare qualunque cosa. Ma quel muro, astratto, non è.

Quel Sistema Pubblico pietrificato e cristallizzato nel secolo scorso non sa, o forse non vuole, cambiare. Sta di fatto che non riesce ad essere fulcro e matrice di coesione locale e nazionale e si rivela esso stesso causa di disgregazione e conflitti. Le politiche promosse dall’Unione Europea e le strategie operative messe in campo per accompagnare il processo di unificazione possono essere un rimedio, ma serve adottarle e attuarle con coerenza.

Coesione e Sviluppo: dall’alto non atterra, dal basso non decolla.

Dalle istituzioni della UE e nazionali (dall’alto) abbiamo programmi pluriennali, risorse finanziarie, piani e progetti che stentano a produrre i risultati attesi; nei territori e tra le comunità (nel basso) le risorse e valori locali – pur abbondanti nel nostro paese – non riescono ad organizzarsi adeguatamente per intercettare i flussi e le opportunità che derivano dalle istituzioni sovralocali e dalla stessa globalizzazione. I territori fragili, pertanto, ne subiscono spesso gli effetti più perversi: lo sfruttamento intensivo delle risorse locali e l’abbandono di quei luoghi al loro destino allorquando gli investitori trovano condizioni più profittevoli altrove.

È forse utile e conveniente esaminare meglio cosa c’è e cosa non funziona “nel mezzo”. La complessità è l’alibi più ricorrente in cui si rifugiano le giustificazioni. Ma è una parola abusata. Sarebbe più corretto ammettere che “nel mezzo” si è creata artificiosamente una complicazione fatta da un coacervo inestricabile di norme, apparati, procedure, tutte viziate da eccessi di settorialismi e particolarismi che, spesso, si ostacolano reciprocamente. Tra istituzioni centrali e periferiche e tra istituzioni di governo locale, il Sistema Pubblico non comunica e non interagisce al suo interno, nemmeno quando opera nel medesimo territorio amministrato da Comuni confinanti. Per dirla in altri termini, le politiche di coesione vengono meno “nelle cuciture”, ovvero nei rapporti interni alla filiera istituzionale, orizzontali e verticali4. A chi volesse approfondire le cause della scarsa comunicazione interna al Sistema Pubblico, quale che sia il campo operazionale in cui si esercita, si propone di esaminare:

  • La congruenza tra normative (leggi nazionali e regionali, delibere e regolamenti locali legittimamente adottati, etc), ovvero la coerenza interna alle regole da rispettare;
  • La proliferazione di apparati amministrativi, spesso costituiti ad hoc per amministrare le suddette norme o per attuare singoli progetti decontestualizzati dalle realtà territoriali;
  • Il bizantinismo delle procedure, quasi mai orientate alla verifica dei risultati; quasi sempre in autotutela degli apparati sui quali ricade l’onere di attuare le dette confuse norme.

All’esito di tali verifiche, ciascuno potrà facilmente dedurre quanto sia inadeguato il Sistema Pubblico e farraginoso il suo funzionamento. Lungi dal disciplinare e accompagnare i comportamenti di cittadini e imprese verso scopi e obiettivi finalistici di interesse pubblico, l’incoerenza interna tra norme, apparati e procedure costituisce proprio il principale ostacolo alla produzione del bene immateriale della coesione, perché lo stato delle cose non favorisce la convergenza delle azioni pubbliche e, men che mai, tra pubblico, privato e privato-sociale.

I danni della politica “collusiva”

La politica troppo spesso smarrisce la sua funzione, collude con queste contraddizioni agitando conflitti populisti contro lo Stato, dimenticando di esserne artefice e parte costituente. Dagli anni ’80 è prevalsa una tendenza leaderista-dirigista nella cultura politica e, di riflesso, nell’amministrazione. Alla “fatica” di rimettere in ordine il Sistema Pubblico, si preferiscono soluzioni emergenziali, che alimentano i vizi di una politica che cavalca interessi particolaristici, fino a collusioni ben più gravi, con “aree grigie” ai limiti della legalità. Gli accordi, i legami e le relazioni con mediatori impropri contribuiscono all’accumulo di capitale sociale malavitoso, se ne è avuta conferma con le indagini su Roma Capitale, con la scoperta del “mondo di mezzo”.  

Con l’intermediazione impropria la politica del nostro tempo ha ritenuto di poter surclassare la crisi delle rappresentanze, ma sembrano ormai chiari a tutti i rischi a cui espone tale superficialità. E sarebbe imperdonabile non vedere analoghe dinamiche relazionali nei comportamenti di tante amministrazioni locali e centrali che costituiscono il Sistema Pubblico nel nostro Paese. Con analoga superficialità è prevalsa la tendenza ad adottare soluzioni semplici a problemi complessi, senza considerare gli effetti dannosi di tali comportamenti. Si osservi, ad esempio, la facilità e la frequenza con cui si ricorre a Commissariamenti Straordinari, anche quando tali decisioni sono inappropriate alle situazioni e ai contesti problematici da affrontare (se si vuole un caso emblematico di approfondimento, si segnala la vicenda del Piano per Bagnoli).

Non mi dilungo su questo argomento, spero che le brevi note che precedono siano sufficienti a testimoniare lo smarrimento della funzione che la politica dovrebbe svolgere nel fare “progetto di futuro” e spero, altresì, di non generare equivoci su cosa si intende qui per “politica collusiva”: comportamenti più orientati alla conservazione di sé che non all’esercizio evoluto delle proprie funzioni. Al di là di ogni buona intenzione dichiarata, la collusione è di fatto con i fenomeni più deleteri per la società. Tali comportamenti, inevitabilmente, tendono ad asservire il Sistema Pubblico a scopi di parti politiche non coincidenti con il più generale interesse pubblico e, non di rado – vista la deriva leaderista dirigista – persino ad ambizioni di natura personale. Il rischio del uomo solo al comando”, oggi, viene da più parti denunciato, persino da chi ha esercitato questo stile e oggi si trova ai margini del potere pubblico. Credo che questo fenomeno denunci di per sé i malanni della politica corrente, i rischi che ne derivano e l’esigenza di evolvere in forme più avanzate di democrazia Partecipativa.

Tutto ciò, in ogni caso, contribuisce ulteriormente ad abbassare il livello di qualità, efficienza ed efficacia del Sistema Pubblico. Nel caso degli apparati, ad esempio, è fatale che la politica collusiva scelga dirigenti pubblici fedeli e obbedienti, poco importa se siano competenti e intelligenti. Una politica efficace potrebbe essere esercitata con strategie operative che mettano un filo di coerenza tra obiettivi, norme, programmi, strumenti e strutture esecutive5; ma il potere pubblico è ancora dominato dalle idee del ‘900 (Crescita, Efficienza, Controllo) e appare incapace di corrispondere alla domanda di Sviluppo, Efficacia, Verifica di risultato; è incapace di cogliere le differenze di significato tra questa triade di concetti. O non vuole coglierle, e aggiunge complicazione alla complessità. Per corrispondere adeguatamente alle nuove domande sociali, serve un più profondo mutamento, dell’approccio culturale e della organizzazione del Sistema Pubblico, il tutto dentro la cornice degli scopi finalistici della nostra Costituzione, la più bella del mondo.

I fermenti innovativi, in mezzo e dal basso

Nei paragrafi precedenti, sia pure in forma estremamente sintetica, sono stati raccontati –dal punto di vista del territorio – i fattori e gli elementi che hanno accresciuto la complicazione e l’inefficacia del Sistema Pubblico: tra il dire e il fare, i principali ostacoli si annidano proprio nell’ intreccio auto-paralizzante tra politica “collusiva”, Norme, Apparati e Procedure che lo formano. Sulle questioni della qualità del processo politico-decisionale e del funzionamento della Pubblica Amministrazione, l’Unione Europea, da decenni ormai, suggerisce di esercitare forme più evolute di partecipazione dei cittadini nella gestione del potere pubblico. Sarebbe un modo per restituire ruolo e dignità alla politica e alle rappresentanze sociali. Ma le culture e le prassi partecipative stentano a permeare l’azione ordinaria della Politica e dell’Amministrazione.

 C’è stato un periodo, breve e tormentato, in cui si sono manifestati fermenti innovativi. Mi riferisco al tempo conosciuto come “La stagione dei Sindaci”, coincidente con “La stagione dei Patti Territoriali”. È forse utile richiamare il contesto politico e sociale che propiziò quella stagione e i motivi per cui è stata breve e contrastata. Tali motivi, persistendo tutt’ora, meritano di essere meglio indagati e conosciuti. I due eventi principali che si sommarono a quelli epocali già accennati in precedenza, furono la crisi del sistema politico, messo a nudo dalle inchieste di tangentopoli, e, nel Meridione, la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno.

La politica, per evidenti ragioni, fu costretta a pescare nuovi volti dalla cosiddetta “società civile”. Nel ’93, con l’introduzione della nuova legge per l’elezione diretta dei Sindaci, questi nuovi soggetti sociali chiamati ad amministrare le città, pur tra mille limiti e difficoltà, si mostrarono più aperti al dialogo sociale, meno controllati dai partiti, più liberi di portare in Politica le esperienze di quel vissuto (professionale, associativo, sindacale) che li legava maggiormente alla società reale. Nel Meridione, inoltre, la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno costituì oggettivamente un trauma nel sistema feudale-assistenziale che assicurava la tenuta del vecchio sistema di potere. (Con ciò, naturalmente, non si nega ruolo importante di questa istituzione, nelle sue intenzioni e nel periodo iniziale della sua operatività.)

In questo scenario sommariamente descritto, il CNEL con Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi, ebbe il merito di esplorare “la società di mezzo” e di incoraggiare il suo protagonismo. L’analisi della società densa e complessa fu descritta nel già citato rapporto dall’ISTAT. Nel Mezzogiorno era anche turbolenta, nei tessuti fragili la dirompenza della crisi economica ha immediati riflessi sociali, tra frammenti di società si generano conflitti che minacciano la convivenza civile. Nella densa composizione della società di mezzo, alla dimensione locale, si distinguevano energie sociali resilienti. Erano i nuovi Sindaci, Istituzioni culturali di formazione e Ricerca, Imprenditori consapevoli, Associazioni di cittadini, sindacalisti evoluti, qualche funzionario pubblico illuminato, insomma una campionatura di quella complessità sociale che, ancorché attraversata dagli eventi intervenuti a cavallo di secolo, esprimeva una forte propensione a cogliere quei mutamenti come opportunità per produrre cambiamenti di corrispondente radicalità.

Lavorando sul campo si osservò che questa complessità sociale era dovuta anche alle diverse caratteristiche geomorfologiche, culturali, produttive e sociali dei luoghi. I diversi caratteri distintivi e identitari dei territori, infatti, costituiscono radici di comunità che possono innescare moderni processi di coesione, utili a competere nella società contemporanea. Forse per tali ragioni lo strumento operativo con cui si accompagnarono le azioni fu chiamato “Patto Territoriale”, volendo sottolineare la centralità dei luoghi e delle comunità locali nelle politiche di coesione e sviluppo. Le prime sperimentazioni sul campo generarono entusiasmo, passione, largo coinvolgimento e forti aspettative; l’indirizzo dato dal CNEL può essere sintetizzato così: fate coesione per competere, non collusione tra interessi particolaristici per prendere soldi pubblici. Il messaggio sollecitava ad esplorare la complessità delle risorse endogene, materiali e immateriali, a cogliere le connessioni e le interdipendenze tra esse, a combinarle in una visione di sviluppo integrato territoriale, insomma ad assumere la complessità come ricchezza.

Poi bastò una Delibera CIPE del ’97 a spezzare questo ricerca-azione virtuosa. Si diede corpo ad un ossimoro: la centralizzazione dello sviluppo dal basso. I Patti Territoriali, da strategia per promuovere coesione e sviluppo a partire dalle comunità locali, diventarono uno strumento finanziario nelle mani della politica collusiva, più avvezza a gestire il potere dei soldi per “equilibri politici” e/o a negoziare consensi di parti della società con risorse pubbliche che a promuovere sviluppo inclusivo. Con quell’atto, la strategia di sviluppo integrato territoriale è stata frammentata e particolarizzata in “patti” variamente denominati: per il sociale; per la formazione; per l’ambiente; per la sicurezza; … e fu persino cannibalizzata nei “contratti d’area”, gli strumenti di intervento concepiti esclusivamente per aree di crisi industriale, come se le industrie non fossero parte dei territori e di una più ampia e complessa crisi della stagione fordista.

Insomma, un patrimonio di passioni, fiducia e speranza fu sacrificato agli interessi di un sistema politico tutto intento a conservare sé stesso. Il sistema politico del ‘900, infatti, si strinse come una morsa intorno ai “nuovi sindaci”: o si lasciavano incorporare, o venivano emarginati e abbandonati al loro destino. Analogo trattamento è stato riservato a quella campionatura di “società di mezzo” che voleva fare coesione per competere; chiamati separatamente a “tavoli di trattative” separati e parcellizzati, sono stati spesso illusi di poter avere accesso privilegiato alle risorse comunitarie, ridotte anch’esse a “pioggia”, sempre per corrispondere alle esigenze conservatrici del sistema politico del ‘900.

Mentre in Italia si smarriva il senso di questa strategia per fare coesione, i Patti Territoriali c.d. di prima generazione furono oggetto di approfondite analisi e ricerche a livello europeo6, ma le esperienze proliferate successivamente  – venuto anche a mancare l’accompagnamento del CNEL  –hanno dato argomentazioni a chi ha voluto archiviare frettolosamente l’intera stagione dei Patti Territoriali. Insomma, come spesso accade, è stato buttato il bambino con l’acqua sporca. L’attenzione sulla strategia originaria dei Patti Territoriali è venuta da un livello istituzionale ancora più alto. La Commissione Europea nel ’99 lanciò il programma sperimentale dei Patti Territoriali per l’Occupazione, 80 in tutta Europa 10 in Italia.

A conferma della validità ed efficacia della strategia originaria dei Patti Territoriali è consultabile la Recuenta dei PTO7, un rendiconto puntuale dei risultati raggiunti: nei tempi stabiliti; sugli obiettivi dei Programmi condivisi nei Partenariati locali; con la spesa del 97% delle risorse impegnate; con innovazioni amministrative e risparmi sulle spese di gestione della fase di attuazione. Da responsabile diretto di uno dei PTO (Area Nord-Est di Napoli – Città del fare) posso testimoniare che i risultati si sono potuti raggiungere grazie all’accompagnamento della Commissione Europea e al generoso impegno di un dirigente del MEF che ha avuto il merito di superare i limiti burocratici entro cui pure poteva trincerarsi.

Tra le cose imparate in quegli anni, la più interessante mi sembra l’approccio alla complessità come ricchezza. La complessità è la caratteristica dominante nel nostro tempo, è illusorio pensare di governarla, ma ridurre il caos si può, come si può trarre da essa filamenti da intrecciare per costruire coesione e promuovere sviluppo8, ma è una storia ancora tutta da vivere e scrivere. È pur vero che quelle sperimentazioni richiedono miglioramenti e continui aggiornamenti, ma il destino di quei territori accompagnati nei primi passi di un percorso innovativo non si è potuto svolgere, si è impaludato in quel Sistema pubblico del ‘900 di cui abbiamo già scritto sopra.

Ancora una volta abbiamo assistito ad un generoso sforzo di raccordo tra alto e basso, ma in mezzo c’è stato uno Stato titubante e la sostanziale assenza delle Regioni. Il tentativo di regionalizzare i Patti Territoriali e la Programmazione negoziata, infatti, si è ridotto ad un burocratico passaggio di carte di cui il centro voleva sbarazzarsi e le regioni non hanno avuto interesse ad assumere. Nel neo-centralismo regionale non c’è spazio né cultura per svolgere quel ruolo di accompagnamento e sussidiarietà che pure era previsto negli atti costitutivi delle Regioni. Confortante è il fatto che i fondamenti della Strategia per promuovere e attuare Programmi Integrati di Sviluppo Territoriale mediante processi partecipativi non siano andati del tutto smarriti. Si ritrovano nell’approccio place based suggerito dalla Commissione Europea, nelle applicazioni della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) e anche nelle numerose Convenzioni Europee sottoscritte dai Paesi membri per dare omogeneità e convergenza al processo di unificazione europea. C’è anche nella passione “militante” di tante associazioni.

In questa ricca e vasta letteratura e nelle sperimentazioni di campo che ancora si riescono a fare, il popolo dei Patti trova fili di ragionamenti in cui poter instradare -almeno in parte- le speranze, le passioni e le progettualità più corrispondenti ai bisogni e agli interessi dei propri territori. La letteratura richiamata suscita rinnovate passioni e speranze in quel capitale umano e professionale che si è formato nelle radici della stagione dei Patti territoriali; gli eventi succedutisi negli anni successivi e ancor più gli effetti prodotti dalla pandemia, spingono anche le nuove generazioni a proseguire la ricerca e l’azione, a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a concentrarsi sugli obiettivi e i risultati da raggiungere. È certamente questo l’atteggiamento più giusto e producente, purché non si sottovaluti il fatto che il principale ostacolo non è davanti a noi, è dietro, è nelle sabbie mobili di quel sistema pubblico del ‘900 dalle quali non si esce solo con il volontarismo e le buone intenzioni. È un ostacolo più duro del muro di Berlino, perché è di gomma.

CONCLUSIONI

In base all’esperienza di campo mi sento di affermare che, oggi, la coesione si può costruire solo dal basso, ricostruendo moderne comunità intorno a sentimenti di appartenenza al territorio che le ospita; intorno al destino e alle vocazioni di sviluppo rinvenibili nei territori stessi. Nessuno interpreti questo come localismo. Chi ha fatto questi percorsi ha ben imparato che per formare moderne comunità bisogna mettere in campo conoscenza, coscienza, consapevolezza e coraggio. Le reti corte della coesione non sono sufficienti se non si connettono con le reti lunghe della società, dell’economia, della cultura, dei mercati globalizzati, se non si innervano nelle dinamiche dei flussi di saperi, persone, merci, che si muovono nel mondo intorno a questi interessi. Le moderne tecnologie sono strumenti potentissimi per agevolare e avvalersi dei flussi, ma è bene ricordare che, senza i contenuti prodotti dall’intelligenza e dalla operosità delle comunità, queste “autostrade informatiche” e questi “veicoli digitali” saranno usate solo per sfruttare le risorse umane e territoriali fino al loro esaurimento. La crisi ambientale sembra prefigurare questo scenario e, pertanto, sembra appropriata l’espressione “Agire localmente, pensare globalmente”.

Cosa manca per fare questo?

Abbiamo visto che non mancano azionisti/costruttori di coesione”, di precedente e nuova generazione. Sono preziose risorse umane e professionali che, tuttavia, essendo disperse e frammentate anch’esse nello specchio rotto della società e del sistema pubblico, non formano “Capitale Sociale” e, dunque, non hanno forza per produrre effetti commisurati al valore delle idee per le quali lavorano. Servirebbe innanzitutto creare luoghi di accumulo e sviluppo” di questo capitale umano; un luogo di raccordo, di studio, di scambi di esperienze e anche di connessione tra i tanti “capitali sociali territoriali” che si formano nelle diverse esperienze di campo.

Mancano, poi, o sono ancora troppo deboli, politiche, strumenti e strategie nazionali sufficientemente condivise e raccordate al processo di unificazione europea, ma la pandemia, in questo processo lento e faticoso, ha causato una accelerazione che potrebbe produrre effetti positivi. Per la prima volta, vincendo resistenze che sembravano insuperabili, l’Unione Europea ha deliberato la costituzione di un debito europeo per finanziare un programma di ripresa significativamente denominato Next Generation. La circostanza può dare un forte impulso ai Paesi membri ad uniformare schemi fiscali e finanziari degli Stati, a riformare organizzazioni vetuste del Sistema pubblico, riprendendo così, finalmente, il cammino di quella unificazione politica che era negli orizzonti e nelle intenzioni dei padri fondatori.

Cosa farà l’Italia? Metterà a frutto le esperienze, le intelligenze e le politiche sperimentate per fare coesione, o sarà necessario un più vigile “tutoraggio” europeo? Sarebbe mortificante. Il mio auspicio è che si rivitalizzino i “fermenti innovativi” degli anni ‘90; non certo in chiave nostalgica per quegli anni in cui il Sistema pubblico del ‘900 procurò i danni descritti, ma per riprendere tracce di lavoro che sembrano molto più confacenti alle sfide da affrontare. Questo auspicio interroga la Politica, la induce a riscoprire la sua alta funzione e interroga i Partiti sulla esigenza di riprendere dignitosamente il ruolo che ad essi affida la nostra Costituzione, la più bella del mondo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Osvaldo Cammarota

Bibliografia

  1. Tra cui: “Capitale umano, capitale sociale e sviluppo economico nel Mezzogiorno. Modelli di valutazione e strategie territoriali per la crescita.” Giannini Editore – Napoli – 2008; Atti del III Convegno SISEC su – Sessione su “Pubblica amministrazione e riproduzione delle diseguaglianze” Napoli 31/1 – 2/2 del 2019; appuntamenti annuali di “Social Polis” (si veda in particolare 7° edizione Vienna 11-12 maggio 2009 sul tema “Come costruire Capitale sociale? “.
  2. A. Bonomi “Il trionfo della moltitudine” Bollati Boringhieri – Torino, 1996.
  3. E. Scalfari (2006).
  4. Il tema è stato approfondito in una giornata internazionale di studio Southern Italy and the international crisis. Which scenarios of growth and cohesion? promossa il 16 dicembre 2013 dalla Facoltà di Scienze Politiche a Napoli.
  5. L’argomento è più puntualmente trattato nel contributo: Per una strategia operativa di coesione e sviluppo – O. Cammarota nella pubblicazione Formazione e relazioni sociali – Giappichelli Editore – Torino, 2012.
  6. ”Sviluppo locale e Patti territoriali per l’occupazione” 1997-98 Promossa dalla DG V della CE, attuata da LEDA Partenariat coord. dal Prof. X. Greffe su 15 esperienze di sviluppo locale in Europa tra cui il Patto del Miglio d’Oro.
  7. “La Recuenta dei Patti Territoriali per l’Occupazione” – L’Arte Grafica -Roma 2010- MEF, Rete dei PTO.
  8. Un diario puntuale della sperimentazione è negli Appunti per un libro di O. Cammarota. “Tra dire e fare sviluppo dal basso. Il caso del Miglio d’Oro”. Edizione propria – Napoli 1996, con il contributo di SRM del Banco di Napoli.

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