Cava de’ Tirreni, sul limitare degli Dei

Cava de' Tirreni

Continua il viaggio di Antonio Corvino, economista, saggista e poeta, attraverso i cammini del Sud Italia, alla ricerca di identità culturali e sociali. Politica Meridionalista pubblica un’ulteriore tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino. Personaggio del racconto è  Cava de’ Tirreni, una città che incanta con la sua storia millenaria, la bellezza del paesaggio e una vivace tradizione culturale. Conosciuta come la “porta della Costiera”, Cava affonda le sue radici nell’epoca romana e ha conservato nel tempo un patrimonio architettonico e spirituale unico, come dimostrano il suggestivo borgo medievale, i portici del centro storico e l’antica Abbazia benedettina della Santissima Trinità. Un luogo dove il passato convive armoniosamente con la vita moderna, offrendo ai visitatori un’esperienza autentica tra arte, fede e natura. (N.d.R.)

 

Cava de’ Tirreni?

Una città, anzi, un luogo universale dove ti aggiri circondato da portici intriganti ed affascinanti, un corso antico che tiene legato presente e passato, intreccia tessuto urbano e dimensione antropologica, suggerisce aspirazioni individuali e dispiega trame comunitarie. Un posto dove la bellezza ti circonda e tu devi solo aprire gli occhi, girare lo sguardo intorno a te e disporti a scoprirla e fartene ammaliare. I Monti Lattari si dispongono come una corona tutto intorno. Il monte dell’Avvocata e il Monte Finestra ti osservano e certo ti chiamano e sollecitano il tuo desiderio di andare.

Qui gli Dei dell’Olimpo elessero il loro domicilio azzerando gli spazi tra Grecia e Magna Graecia. Da qui si precipitarono a strappare Odisseo dalla rovina della eccessiva conoscenza e disseminarono questi luoghi dei loro passi divenuti sentieri per gli uomini che presero a percorrerli scoprendo l’infinito mare e il fascino del viaggio e assaporando la nostalgia del ritorno. Qui la civiltà Osca si dispose a vivificare la storia dei popoli italici. I Greci giunsero in pace ed i superstiti di Ilio furono tentati di fermarsi. I Sanniti assursero al ruolo di antagonisti dei Romani e crearono la prima Lega Italica ed i Tirreni si scoprirono popolo oltre i confini etruschi e greci, sanniti e lucani. Il Gran Conte Ruggero, ascendenze normanne ma nato e vissuto a Sud tra l’XI ed il XII secolo, creò il primo Regno Mediterraneo e portò ad unità il Mezzogiorno italico che Federico, suo nipote nonché figlio di Costanza andata sposa a Enrico VI di Svevia, avrebbe consacrato alla gloria imperitura.

Sono giunto a Cava de’ Tirreni proveniente da Napoli ed ancor prima da Benevento, San Lupo e Guardia Sanframondi, in un viaggio che aveva assunto il sapore del Pellegrinaggio sui luoghi dell’identità meridionale e della patria mediterranea che dall’Egeo e dai Dardanelli si era estesa sin qui trovando nuova linfa, nuovi confini e nuovi mari. Stefano era venuto a prendermi a Napoli e per un miracolo dell’immaginazione, mi aveva proiettato, con i suoi racconti sui portici e le corti della città, in un mondo che sconfinava nella magia. Una sorta di miraggio mi si era rivelato, come fata morgana, anche per il tramite degli occhi pieni di sorpresa di Emy, qui giunta da Como per unire il suo destino a quello di Stefano or è ormai più di qualche lustro, mentre dappertutto dilagava la luce meridiana.

Cava de’ Tirreni. Il corso con i portici

Il corso si sciorinava come un nastro prezioso attraverso la città assumendo le sembianze di una guida leggiadra e discreta che dava senso e ordine a due teorie di loggiati e porticati che si disponevano specularmente esaltando il volto di una città che si specchiava nella gloria del suo passato assunto, mi pareva, a scudo ed antidoto contro la deriva massificante di un consumismo che ha elevato centri commerciali ed anonimi ipermercati a suoi templi. Qui piccoli meravigliosi negozi scandivano come altrettanti eleganti punti di un unico immenso ricamo, la lunga duplice teoria dei portici. Vetrine ammiccanti, curate e custodite da uomini e donne giovani e meno giovani che a me sembravano altrettanti sacerdoti e sacerdotesse di templi antichi giusti per questi tempi moderni, scandivano la duplice teoria dei portici.

Cappelli di ogni foggia e colore, abiti femminili e maschili, calzature di tutte le forme e tipi, oggetti di arredo per la casa, gioiellerie, profumerie e idee per mille regali, gallerie e fotografi, bar, trattorie e financo una calzoleria facevano bella mostra di sé e, in fondo in fondo, faceva capolino una libreria. Il duomo con la sua piazza nobilitata da una monumentale fontana abitata da delfini, contrappuntava la città antica. In fondo, oltre il corso ed i portici, la chiesa della madonna dell’Olmo protettrice della città e il convento dei Francescani. Il sole meridiano la avvolgeva tutta alternando gli spazzi annegati nella luce con quelli scolpiti nell’ombra…

La luce meridiana si mostrava in uno con la scansione del pensiero Meridiano. Erano ormai quasi le due pomeridiane. Il corso ed i portici erano deserti. I negozi avevano chiuso e solo qualche bar resisteva. Qui i tempi camminano con l’incedere lento ed immutabile del giorno e della notte e la gente ne rispetta e ne riflette la maestosa scansione… A sera la città si animerà e vivrà di gioia irrefrenabile sino a tardi, molto tardi. Il giorno e la notte misurano le stagioni e danno ordine e consistenza ai pensieri, ai movimenti, ai comportamenti…

Non è ignavia o indolenza, è civiltà della terra mediterranea, civiltà greca in sintonia con le leggi dell’Universo e di esse rispettosa. É la civiltà che ancora resiste nelle pieghe di un Mezzogiorno custode del futuro del mondo, se il mondo vorrà sopravvivere. Sono ospite della Fondazione Gagliardi Marino Angeloni. Stefano ne è il Presidente e l’anima passionale con Leonardo suo fratello custode delle vicende storiche. Un esempio di dedizione per la propria comunità, la cultura e la memoria. Tutta roba che qualcuno dovrà pur difendere ed affermare onde contrastare la deriva verso il nulla che prende le mosse proprio dalla rassegnazione alla damnatio memoriae, una deriva sempre più sdrucciolevole su cui il mondo intero sta scivolando.

Francesco, direttore artistico e tumultuoso spirito creativo mi ha raccontato il progetto culturale che si dipana tra Cinema e Letteratura, teatro e conoscenza. Entrambi mi han raccontato pezzi di una storia che ho ricomposto chiedendo e addirittura immaginando, a volte, i pezzi del puzzle avendone intravisto la dimensione tutta al femminile iniziata dalla coraggiosa, anticonformista e, pertanto rivoluzionaria, decisione di una donna, Anna Maria Marino, per quarant’anni professoressa di matematica, di non disperdere il patrimonio familiare che era giunto dalla madre di lei, la Baronessa Adelina Gagliardi, destinandolo, con lucida determinazione, all’impegno per la cultura della Comunità Cavese. In questo anelito Anna Maria Marino trovò il necessario sostegno ed incoraggiamento nella Signora Maria Teresa Angeloni mamma di Stefano oggi presidente della Femminile Fondazione Gagliardi Marino Angeloni. Se qualcuno avesse dei dubbi sulla capacità visionaria delle donne si fermi a riflettere su questa storia che oggi cammina sulle sensibilità di Stefano e di quanti con lui hanno ereditato questo progetto che è divenuto realtà compiuta.

La cattedrale vista dai portici

Da Cava e più precisamente dalla Abbazia benedettina posta alle pendici dei monti Lattari il Gran Conte Ruggero e, prima, i Longobardi avevano governato il Sud. Ho un debito con questo territorio ed una ferita. Un debito da pagare ed una ferita da suturare. Ho dormito profondamente questa notte. Al termine della presentazione del mio romanzo di viaggio “L’altra faccia di Partenope” presso lo straordinario salone affrescato di Villa Adele divenuta sede della Femminile Fondazione, Francesco mi ha condotto a Salerno. Ci attendevano Enrico e Sara, anch’essi protagonisti e parti fondanti del progetto culturale partorito dalla Femminile Fondazione Gagliardi Marino Angeloni e affidato alla feconda creatività di Francesco. Non conoscevo Salerno. I suoi vicoli alle spalle del porto tra gli spazi del duomo e delle numerose chiese e conventi intravisti, mi sono sembrati affascinanti. Un popolo variegato e multicolore di ragazzi e ragazze animava magnificamente quel borgo antico ahimè obnubilato da una moderna costruzione che nasconde il mare alla città.

Si dice sia un debito che la città stessa doveva pagare alla modernità…Io che sono estraneo ed ho percorso a piedi migliaia di chilometri per raggiungere castelli, borghi e cattedrali in cima a colli e monti ed in fondo a valli, tutti orgogliosamente estranei all’idea di modernità ed anzi in attesa di restituire l’anima antica alla modernità se questa vuole salvarsi, non riesco ad immaginare debiti e penso nello specifico si tratti di un sacrificio assurdamente offerto sull’altare di una modernità che mortifica le città e mi consolo avendo intravisto sia pure en passant ed in maniera frettolosa la spumeggiante vitalità di ragazzi e ragazze che popolano i vicoli di Salerno ed avendo intuito la loro straordinaria capacità di non farsi irretire da falsi proclami e da false ambizioni e mi trovo a pensare che forse il futuro è in buone mani e che l’esercito degli opliti si sta muovendo rapidamente per rilevare gli epigoni del re Leonida e degli ultimi don Chisciotte attestati a presidio delle Termopili.

Facciata dell’Abbazia, chiesa e chiostro romanico nei sotterranei dell’Abbazia.

Questa mattina mi sono svegliato tardi ma il mio pensiero era proiettato all’abbazia dei Benedettini. La Badia dedicata alla Santissima Trinità. Da lì avrei pagato il mio debito per questa città ed avrei definito le idee per suturare la mia ferita. Ho preso a salire. La strada era amica e lasciava andare veloci i miei piedi. Piccoli cespugli di menta selvatica mi sfioravano i polpacci e liberavano effluvi di freschezza bene augurante. Di qua e di là della piccola carreggiata rigogliosi boschi di querce si erano sostituiti alle robinie ed allungavano i loro rami mitigando il sole ormai alto che mi accompagnava. Montavo rasentando i muretti per difendermi dai suoi raggi perché i veicoli erano radi e quei pochi procedevano attenti e con cautela. La vegetazione al suolo era ormai secca per lo più. I finocchi selvatici spuntavano qua e là mostrando le cime tagliate. Resistevano ciuffi color amaranto di valeriana comunque ormai pronti a sfiorire come le ginestre. I rovi erano le uniche piante lussureggianti con i fichi che si disponevano lungo i margini esterni e dentro i giardini delle isolate case che accompagnavano la salita. In alto, delle ville facevano bella mostra di sé e piccoli tratturi interrompevano il compatto dispiegarsi dei boschi.

Il monte Finestra una delle cime dei Monti Lattari che incombe su Cava. Vista di Cava salendo verso l’Abbazia della Santissima Trinità

Era un paesaggio dolce e sembrava disposto per allietare la mia salita. Di tanto in tanto incrociavo dei camminatori che scendevano. Nessuno in salita. Sembrava fossi il solo che volesse guadagnare l’Abbazia. D’altronde erano ormai passate le dieci ed il sole mordeva. Ma io non me ne davo pensiero. Da sempre ho amato, al pari di Rimbaud, camminare nel sole e addirittura con il caldo torrido. Ho percorso appena qualche anno addietro il Cammino Micaelico sulla Via Francigena tra il Pre Appenino Dauno, il Tavoliere delle Puglie ed il Massiccio del Gargano in pieno agosto.

Lungo il tavoliere, cinquanta chilometri di pianura bruciata e sferzata dal sole, vi dovevano essere almeno 40 gradi all’ombra ammesso che lì lo avessi incontrato un albero, per cercare un po’ di ombra. Quindi procedevo deciso e sicuro dei miei mezzi. L’Abbazia Benedettina era la mia meta e l’avrei raggiunta. Dopo mezz’ora di marcia spedita ero giunto al bivio che conduceva a Corpo di Cava, un sobborgo medievale frazione di Cava che si inerpicava alle pendici dei Monti Lattari. Riconobbi quel bivio e rammentai bene quel borgo avvolto nel silenzio ed attraversato dalla solitudine, disposto lungo dei viottoli ripidi che dal nucleo centrale conducevano in alto tra olmi e querce dagli ombrelli ampi e protettivi.

Lì il sole sembrava non avere potere. Vi era un’umanità consapevole e desiderosa di essere più che di avere. Salendo verso il borgo, allora, avevo notato una piccola salumeria. Scoprì che il titolare era un americano, un jazzista che qui aveva trovato il suo eden… artisti e architetti vi si erano, come lui, rifugiati e con essi la volta scorsa mi intrattenni in piacevoli conversazioni. Le persone erano tutte affabili e, mi sembrava, in pace con sé stesse oltre che con il mondo intero. Nella piazza del borgo, in alto, vi era un albergo intimo e discreto frequentato da sempre, mi dissero in paese, da quanti aspiravano alla fresca quiete estiva all’ombra dei monumentali boschi dei Monti Lattari.

A Corpo di Cava ci ero arrivato con la mia guida per attaccare proprio i Monti Lattari in quella che sarebbe stata la mia traversata della catena che aveva segnato la dimora degli dei antichi e che dava vita da un lato al golfo di Salerno ed alla costiera Amalfitana e dall’altro al golfo di Napoli ed alla costiera Sorrentina. Guardai da quel lato come si guarda avendo riconosciuto un posto amato sia pure per il breve tempo in cui lo hai sfiorato. Sorrisi soddisfatto come quando si incontra una vecchia conoscenza con cui si sono condivisi momenti brevi ma intensi, e proseguì. Non i Monti Lattari erano oggi il mio obiettivo ma l’antica Abbazia. E mi avviai lungo la stradina che virava con una curva decisa verso la discesa che concludeva la sua corsa sul pianoro su cui si elevava la fabbrica abbaziale.

L’abbazia mi apparve maestosa. La facciata barocca svettava superba affiancata dalla torre campanaria che certo conservava linee e struttura ben più antiche. Il complesso si stagliava contro il monte che la sovrastava con le sue rocce che tutta la avvolgevano squarciando la cupa foresta che dominava in alto ed in basso il monte stesso. Di là partiva il sentiero che conduce verso la cima del Monte Avvocata. Poi i monti Lattari corrono verso il monte Finestra per distendersi quindi lungo la catena che corre in direzione di Punta Campanella per immergersi nelle acque prospicienti del Tirreno e riemergere sull’isola di Capri. Avevo intrapreso quella traversata dopo la pausa imposta dal Covid che aveva costretto i monti all’abbandono e che aveva cancellato più di un sentiero. Questo fu il motivo che mi impedì, con mio grande rammarico, di raggiungere il Monte Finestra popolato in cima da gigantesche selve di felci che avrebbero potuto provocare rischi di smarrimento pericolosi. Obtorto collo accettai quella prudenza ma adesso osservavo quella cima. Sapevo che mi aspettava e di certo l’avrei raggiunta.

Nulla succede per caso. Ed il mio incontro con la nobile Cava de’ Tirreni era il segnale che ormai fosse maturo il tempo per il mio incontro con il monte che proteggeva Cava ed il suo territorio. Ma oggi la mia attenzione era riservata all’Abbazia. L’avevo potuta vedere solo nella sua imponente fabbrica la volta scorsa. Mi sembrò una quinta teatrale su quell’immenso palcoscenico che nascondeva il paradiso o l’Eden se meglio vi aggrada. Nonostante il rifacimento barocco quell’abbazia datava dall’anno mille… l’anno che avrebbe dovuto portare a compimento il millennio apocalittico e sancire il ritorno del giudice supremo, accompagnato dai quattro cavalieri, per giudicare vivi e morti.

L’impero romano si era ormai dissolto in Occidente. I barbari scendevano da nord e salivano dalle terre africane per impossessarsi delle ricchezze e della gloria romana. La chiesa di Cristo era rimasta unico baluardo contro quelle invasioni. I suoi pastori combattevano mostrando gli ostensori ed i sacri vessilli. San Benedetto si era ribellato a tanta rassegnazione e degrado e, con Santa Scolastica, sua amata sorella gemella, aveva creato la sua regola che recitava “ora et labora”. In Oriente San Basilio faceva altrettanto e la salvezza del mondo, fu evidente fosse affidata a quei santi uomini e donne, mentre a Sud nel deserto africano e nel Vicino Oriente nasceva l’Islam ed i Mori irrompevano nel Mediterraneo sancendone la definitiva rottura.

Il “Mare Nostrum “ dei Romani aveva perduto la sua identità e guerre e lotte si preparavano insieme all’avvento di nuove civiltà. Dal Nord arrivavano Franchi e Svevi a rivendicare la successione nell’Impero e la continuità con Roma. In questo groviglio tra storia e civiltà, tra religioni vecchie e nuove, tra decadenza e rinnovamento, le abbazie divennero altrettanti fari luminosi. E l’abbazia di Cava divenne un faro potente nella riconquista del Mezzogiorno alla sua primigenia civiltà. Il gran conte Ruggero, Ruggero il Normanno ricacciò i Mori oltre il mare ed io sono sceso nei sotterranei dell’Abbazia in cerca dei segnali della sua presenza. Maestose e tuttora imponenti mi sono apparse le testimonianze del primo avvento cristiano.

Abbazia della Santissima Trinità. Ambone del XII secolo

La chiesa romanica con evidenti segni normanni negli archi a sesto acuto che annunciavano l’avvento del gotico, innervava le sue navate direttamente nella montagna. In una nicchia eccolo il segnale che cercavo. Il sarcofago della consorte di Ruggero che qui volle che ella riposasse per sancire il suo potere e l’unitarietà del regno che presto si sarebbe esteso alle Puglie ed alla Sicilia oltre che al nord Africa, nelle terre che furono dei Cartaginesi. I Mori o Saraceni avrebbero dovuto lasciare quelle contrade e, tuttavia, a differenza della reconquista spagnola e portoghese, nel regno di Ruggero e poi di Federico, il sincretismo culturale, artistico e architettonico avrebbe sostituito ogni velleità di conquista e dominio violento. Abbazie ed Abbati sarebbero stati l’anello di congiunzione tra conquista militare e potere culturale. É tutto in questo meraviglioso incrocio di civiltà la grandezza dell’abbazia di Cava.

Da qui Ruggero guidò la riconquista del Sud italico e costruì il suo regno che sarebbe stato un regno Mediterraneo e che con Costanza sua figlia e Federico, suo nipote, avrebbe restituito identità ed unicità all’antico Mare Nostrum sancendo l’alleanza tra Europa , Africa ed Oriente… Un insegnamento che tornerebbe utile e addirittura vitale per il mondo intero solo che vi fossero governanti in grado di riscoprire la memoria di queste terre e di questo mare e fossero in grado di capire la grandezza di Ruggero, di Costanza, di Federico…

É straripante la bellezza contenuta nelle antiche chiese e grotte dell’Abbazia tra le quali un posto centrale occupa la grotta di Sant’Alferio fondatore dell’abbazia stessa. Il chiostro romanico è tuttora un capolavoro insuperato di arte, armonia e bellezza che conduce al misticismo religioso ma anche al raccoglimento laico… Una superba biblioteca, 30.000 incunaboli, 15.000 pergamene, 50.000 volumi preziosi, racconta la grandezza della storia accumulatasi tra le sue mura e celebrata dai suoi santi Abati. Mi stacco infine da tanta grandezza. La mia guida, custode dei tesori abbaziali, è stata generosa con me ma é ora che io restituisca il tempo alla sua scansione normale che a Sud sposa la cadenza della luce e delle ombre, del giorno e della notte, dell’alternarsi delle stagioni e dell’avvicendarsi del sole e della luna.

Interni dell’Abbazia

Mi rifugio in chiesa. Vi é un ambone maestoso nella policromia delle sue variopinte tessere marmoree che esaltano la luce e lo splendore delle sue linee pure ed essenziali. Risale al XII secolo. Le paure dell’anno mille sono ormai alle spalle e la grandezza é tornata con il Gran Conte Ruggero il Normanno e con essa la bellezza e l’armonia incarnata nelle badie, nelle cattedrali e nelle chiese oltre che nelle città, nei palazzi, nelle torri e nei castelli. L’esuberanza barocca è straripante nella chiesa abbaziale. Potrebbe addirittura sopraffare l’animo ma vi è un silenzio… un silenzio che tutto permea e invita al misticismo anche chi è abituato a porre l’uomo sullo stesso livello di dio nella convinzione che dio abbia bisogno dell’uomo allo stesso modo in cui l’uomo ha bisogno di dio. Un dio che ciascuno invoca a suo modo ed a cui ognuno conferisce le sembianze più consone. Vi è una dolce penombra in chiesa.

In fondo vi è un porta stretta e lunga aperta come una ferita lungo lo sviluppo verticale del massiccio portone. Un fascio di luce abbagliante si insinua e, riflettendosi sul pavimento marmoreo, attraversa per intero la lunga navata centrale. Sono seduto ai piedi dell’ambone e per un momento mi lascio sopraffare da quella luce. I padri Benedettini han mantenuto aperta la basilica… Chissà, magari per consentire a qualche pellegrino-camminatore-arrampicatore di entrare e riposarsi. Ed anch’io mi sono deciso a chiedere ospitalità in essa. Almeno per un po’. Prima di riprendere la via del ritorno. Nel baretto all’ingresso del borgo di Corpo di Cava, mi sono fermato a lasciar sedimentare le emozioni che la Badia della Santissima Trinità mi ha generosamente elargito.

Era ormai l’una e il titolare che gestisce il bar si accingeva a chiudere per il pranzo familiare. Sarebbe tornato di lì ad un’ora più o meno. Qui il tempo lo si misura con il lento incedere del sole e nella stagione estiva il meriggio viene addomesticato cercando l’ombra e la quiete di casa. Ma sulla piazzola addossata alla parete del monte che più su ospitava un’ulteriore terrazza, si stava proprio bene. Un leggero vento di brezza rinfrescava l’aria rendendola amica e addirittura piacevole. “Ma voi potete rimanere” mi ha tranquillizzato il proprietario gentile con un sorriso rassicurante. Davvero mi sarebbe dispiaciuto interrompere quel momento di raccoglimento alle porte del borgo e a due passi dalla Badia le cui campane non cessavano di contare quarto d’ora dopo quarto d’ora il sonnacchioso avanzare delle ore e quelle parole mi avevano confortato. Si stava proprio bene sul limitare delle pendici dei Monti Lattari.

Il clima era più fresco rispetto alla valle in cui si stende, anch’essa al riparo da ogni frenesia, la nobile città di Cava. Stefano in realtà, incoraggiandomi, la sera prima, a salire verso la Badia, mi aveva raccontato della consuetudine dei viaggiatori e degli stessi cittadini di Cava, almeno quelli più abbienti, di trasferirsi là sopra per combattere la calura. E gli stessi ragazzi amavano trasferirsi da Cava in motorino proprio in quel baretto per trascorrervi qualche ora in amicizia e relax. Lì c’era ancora un vecchio biliardino di calcio balilla che davvero chissà quante sfide avrà visto tra gli studenti del liceo classico e scientifico ospitato dalla prestigiosa Badia sino a qualche decennio addietro. Ho chiesto al gentile proprietario del bar un fresco aperitivo prima che andasse via e mi sono predisposto a godermi in totale solitudine quel tempo meridiano.

Siamo ormai in prossimità della festa della Pentecoste e della processione del Corpus Domini che attraversa le contrade cittadine ed anche le campagne, ovunque a Sud, a benedire le messi prossime alla mietitura e invocare la benevolenza divina sulla bella stagione ormai partita. Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio mi aveva anche raccontato Stefano, Cava entra in fermento, certo per le celebrazioni religiose, ma anche per la rievocazione delle vicende storiche che decretarono lo status di città benemerita sottratta al potere di feudatari, conti e baroni e affidata alla diretta sovrintendenza della Corona. Era uno “Status” privilegiato di gran conto che la esentava da tasse ed orpelli feudali e favoriva lo sviluppo della città e la sua crescita economica e commerciale anche. Cava infatti divenne una sorta di zona franca che attrasse commerci e commercianti che qui presero a costruire depositi, negozi e palazzi.

Nacque così anche quella meraviglia del Corso cittadino con gli eleganti porticati che anticipavano gli spazi destinati alle vendite ed alle contrattazioni ed ospitavano passanti ed acquirenti che potevano intrattenersi in proficue quanto amene conversazioni al riparo dal solleone nella bella stagione e dalla pioggia e dal freddo nella brutta. Tutto cominciò nell’Anno Domini 1460. Il 4 settembre 1460 precisamente. In quel giorno venne consegnata alla Città, in mezzo al tripudio dei suoi cittadini, la Pergamena Bianca con i sigilli e la firma del Re di Napoli Ferrante Primo d’Aragona il quale intendeva ringraziare così la nobile città di Cava per il coraggio e la fedeltà dei suoi cittadini e dei suoi armati i quali sostennero il re nella guerra scatenata contro di lui da Carlo d’Angiò.

Su quella pergamena bianca con i sigilli e la firma del re, la città di Cava avrebbe potuto elencare tutte le richieste che avesse voluto avanzare. La città di Cava rispose a nobiltà con animo nobile ed alla generosità con altrettanta generosità. La pergamena rimase intonsa. Bianca e splendente nel suo nitore. Essa é esposta ancora oggi nella Casa Comunale. Nacque così lo status di Cava Città Libera, esente da imposte e destinataria della protezione regale. Ogni anno a ridosso della Pentecoste e della processione del ringraziamento e della benedizione divina in occasione delle celebrazioni per il Corpus Domini, a far data da quell’Anno di Grazia 1460, la cittadinanza celebra quell’evento glorioso in uno con la fortuna che da esso scaturì ed i cui segni pregni di nobiltà, generosità, ricchezza e progresso sono tuttora evidenti.

Si sono fatte ormai le tre pomeridiane… le mie passeggiate fantastiche nella memoria storica di Cava e nella Abbazia della Santissima Trinità, all’ombra dei monti Lattari che tutta la cingono, sono state belle e gratificanti. Arricchenti anche. Adesso però è tempo di rimettersi sulla strada del ritorno e guadagnare casa. Lo farò offrendomi volentieri alla calura meridiana e di tanto in tanto cercando la frescura delle ombre regalate dai rami delle querce, delle robinie e dei pini che si protendono sulla strada.

Questa sera negli spazi della fondazione Gagliardi Marino Angeloni, nella Villa Adele che fu della Baronessa Anna Maria Marino che l’ha voluta consacrare alla cultura, continua la rassegna letteraria. Questa volta siederò tra il pubblico e tra me penso che l’antica nobiltà di Cava potrà, anzi dovrà, tornare a rivivere nella cultura. Nella cultura e nella bellezza che sole, con la generosità della città tutta intera, possono perpetuarne il passato reinventandolo quotidianamente. E sotto il sole che dardeggia mi concedo un’ultima fantasia. Aggiungere alla cultura, alla bellezza, alla letteratura, al cinema, la musica.

E scendendo dalle ultime pendici dei Monti Lattari mi immagino i Portici e le Corti, le piazze e le chiese, i musei ed i teatri esistenti ed a venire, risuonare di sonorità jazz…mentre mi torna in testa il monologo di Max, il corpulento trombettista che ne La Leggenda del Pianista sull’Oceano, rievocando la musica sublime e sconosciuta del suo amico pianista andato a fondo con il piroscafo, urla piano rivolto al vecchio rigattiere di strumenti musicali “é jazz, amico, se senti una musica che non sai da dove esce ma che ti fa sobbalzare per l’emozione… quello è Jazz, amico, è Jazz”… Jazz mediterraneo, aggiungo io, musica inventata tra la luce meridiana e la notte amica delle ombre.