Caltanissetta dove la memoria attende di essere dissepolta

Una nuova tappa del viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. Politica Meridionalista ha già ospitato altri report letterari di Corvino per offrire ai propri lettori una finestra su un mondo ricco di memorie che necessita di essere conosciuto e maggiormente valorizzato socialmente e culturalmente. É la volta di Caltanissetta, luogo che custodisce una storia profonda che si riflette nei suoi monumenti, nelle tradizioni popolari e nell’architettura del centro storico. Conosciuta un tempo per l’estrazione dello zolfo, oggi si distingue per il suo ruolo culturale e la vivacità della sua identità siciliana, fatta di arte, fede e memoria collettiva. (N.d.R.)

 

É terra antica quella dei Nisseni. Antica e dalle molte stratificazioni non solo sul versante geologico ma anche su quello storico, antropologico, culturale segnati, tutti, dalle civiltà che qui si sono accatastate e sovrapposte senza tributi particolari alla Grecia, madrepatria della Trinacria. I Cartaginesi si affacciarono al tempo del loro massimo splendore ma non si fermarono; anch’essi erano attratti dal mare e disdegnavano i territori nascosti nell’entroterra. Caltanissetta, città dei Nisseni, vive lontano dalle coste mediterranee. Essa occupa la parte continentale della Sicilia sui Monti Erei, distesa su tre poggi disposti ad anello che si innalzano a circa 600 metri.

Allorquando mi accinsi a partire, il mio amico Salvatore mi ammonì. “Qui siamo in altura, portati qualcosa di adeguato”. Era ancora marzo, tempo di equinozio, e saremmo dovuti partire di lì a poco per il Cammino di San Giacomo in Sicilia, da Caltagirone a Capizzi attraversando i Monti Erei e approdando sui monti Nebrodi. Io avevo un’idea calda ed assolata della Sicilia e mi accingevo a partire con uno zaino ridotto al minimo. Non è che l’avvertimento di Salvatore lo avessi trascurato ma mi limitai solo a qualche piccolo aggiustamento. In realtà fu, per me, una scoperta il clima continentale di Caltanissetta. Era piuttosto fresco e la sera, beh una giacca o un giubbotto non dispiacevano, anzi. Lungo il cammino fortunatamente mi imbattei in una insperata fata compassionevole che a Mirabella Imbaccari dove giungemmo fradici di pioggia e inzaccherati di fango oltre che intirizziti, mi fece dono di un maglione di lana alla dolce vita che praticamente non dismisi sino al mio rientro.

Caltanissetta è anche esposta ai venti. Venti di scirocco carichi di sabbia del deserto e venti di tramontana secchi e rigidi. Salvatore mi ha aiutato a prendere confidenza con il territorio conducendomi in cima ai colli che circondano la città. Mi racconta che qui un tempo vissero i Sicani. Più in là verso ovest si erano insediati gli Elimi e dall’altra parte, verso sud est, si erano fermati i Siculi. Insomma i Sicani giunsero da queste parti un paio di millenni prima di Cristo, i Nisseni ci abitano da dodici/tredici secoli. Per la verità questa zona, cuore nascosto della Sicilia, era stata da sempre prediletta anche dagli dei.

Mentre in direzione di Catania l’Etna ospitava la fucina di Efesto e Poseidone stazionava sul mare, qui dimoravano Demetra e Persefone. Sul lago di Pergusa alle porte di Enna il cui territorio confina con quello di Caltanissetta, esse amavano passeggiare, Demetra a controllare la fertilità della terra e Persefone, sua figlia, la policromia dei prati. Ade, fratello di Poseidone e di Zeus, rapì Persefone proprio sulle sponde del lago di Pergusa. Se ne era invaghito follemente e non volle saperne di lasciarla tornare indietro anche perché gli sembrava che Persefone non fosse indifferente al fascino del padrone degli inferi ed era convinto che il regno dell’oscurità la intrigasse non poco.

Dicono che Demetra scaraventò sulla terra una carestia mai vista che convinse Zeus ad intervenire per una pace di compromesso e da allora Persefone torna sulla terra da sua madre ogni anno, allo scoccare dell’equinozio di primavera per restarci sino all’autunno allorquando la terra si chiude su sé stessa per difendersi dal freddo incombente, custodire e far germogliare i semi mentre i fiori seccano e gli alberi si spogliano. I Sicani dal canto loro avevano dato vita ai primi villaggi rupestri popolando le grotte di cui erano ricche le Serre che dominano tuttora i Monti Erei.

I Monti Erei ricchi di boschi, terreni seminativi, prati e pascoli. Qui una distesa di senape selvatica.

Sono, le Serre, escrescenze rocciose di natura calcarea disseminate di picchi ricchi di conchiglie e di fossili marini oltre che imponenti e belli da vedere. Sembra che esse siano la parte più antica della Sicilia. Allorquando i mari ricoprivano quasi per intero il pianeta, le Serre erano gli unici atolli emersi nei paraggi. Insomma stiamo parlando di indubbia nobiltà risalente alle ere glaciali. All’incirca un millennio dopo l’arrivo dei Sicani, degli Elimi e dei Siculi, in Sicilia arrivarono i Greci. Sembra che anche i Troiani si siano fermati. Ma poi proseguirono per le coste africane dove regnava la regina Didone che si innamorò di Enea, inconsapevole del destino che gli dei avevano in serbo per il principe troiano. Gli Achei invece non se ne partirono più e, tutto intorno, sulle coste crearono le loro città dando vita all’era della Magna Graecia…

Gli opliti di Akragas, l’attuale Agrigento, si avventurarono all’interno raggiungendo i territori dei Sicani ma desistettero dai loro propositi di conquista. Troppo aspro quel territorio e distante dal mare per pensare di colonizzarlo. Poi giunsero i Romani che compresero subito l’importanza delle zone interne della Sicilia, trasformandole nel granaio dell’impero. Le disboscarono e le trasformarono in terreni seminativi ed in pascoli che affidarono ai legionari in congedo perché li coltivassero. Ancora adesso distese di grano, prati lussureggianti e pascoli verdi ricoprono l’area e greggi e mandrie segnano il territorio che si dipana armoniosamente tra valli accoglienti e colli rotondi al riparo da altezze eccessive e depressioni profonde.

Ma Caltanissetta, mi racconta Salvatore, mentre saliamo in direzione della Serra che si staglia sul limitare estremo della città, in corrispondenza del castello di Pietrarossa e del Quartiere Angeli, dovette aspettare l’arrivo degli Arabi per dismettere il passato da villaggio. Gli Arabi, o Mori, come li chiamavano in Europa, arrivarono dal nord Africa e dal Marocco governato dai Berberi, orgoglioso popolo del deserto, tra l’ottavo ed il nono secolo dopo Cristo allorquando l’impero di Roma era ormai tramontato da un pezzo e Costantinopoli aveva preso a disinteressarsi della Sicilia. Non si fermarono sulle coste come i Greci ma occuparono l’intera isola, pensando addirittura di farne una seconda patria. E proprio nei pressi della Serra abitata dai Sicani costruirono la loro roccaforte. Gli Arabi chiamarono il villaggio rupestre che vi trovarono Gibil Gabib. Esso somigliava molto ai villaggi trogloditi del Sahara. Anche lì le abitazioni erano scavate nella roccia e l’ingresso avveniva dall’alto attraverso una apertura che dava luce all’abitazione mentre in basso erano disposti i diversi ambienti.

 

Il Castello invece lo denominarono “Qal’at an-Nisa”. Da cui Caltanissetta. Tradotto, il castello delle donne. “Mi raccomando” puntualizza Salvatore sentendomi pronunciare Caltanisetta con una sola “s”. “ Calatanissetta” con due “s”. Tu diresti Millano con due “l”? No. E nemmeno Caltanissetta può essere pronunciata con una sola “s”. È una questione di identità.” Sottolinea. Come dargli torto. Di sicuro non avrei più sbagliato. Sul nome vi sono dei distinguo o addirittura delle diverse teorie e interpretazioni, mi fa presente Salvatore il quale, nonostante abbia attraversato la penisola intera nella sua vita professionale ed abbia soggiornato in più di una metropoli, mi sembra ami visceralmente la sua città e quel nome davvero inusuale, misterioso addirittura. Ma forse è proprio la familiare, misteriosa irripetibilità della storia dei luoghi in cui siamo nati e/o vissuti che ci lega indissolubilmente ad essi.

Più tardi, visitando gli antichi quartieri del centro storico e la cattedrale mi avrebbe dato due flash fondamentali a sintetizzare la grandezza di Caltanissetta, uno sul fronte artistico e l’altro sul fronte patriottico-identitario. Mi mostra dapprima la fontana del Tritone in piazza Garibaldi proprio di fronte alla Cattedrale barocca con il bellissimo cavallo marino imbizzarrito trattenuto dal Tritone e quindi il monumento ad Umberto I a ridosso del sagrato della chiesa di Sant’Agata in fondo al corso che la collega con piazza Garibaldi e la Cattedrale stessa. Sono entrambe opere in bronzo di Michele Tripisciano, scultore nisseno di fama internazionale vissuto tra il diciottesimo secolo e l’inizio del ventesimo. “Se vai a Notre Dame di Parigi non scordarti di cercare la statua in marmo della Vergine con bambino. Anche quella è opera di Michele Tripisciano.” Si raccomanda il mio mentore che intanto mi mostra il superbo palazzo dei Moncada, antichi feudatari della contea nissena.

E ragionando delle attuali condizioni del Sud che a più di qualcuno oggi fan sorgere molti dubbi sulla bontà dell’Unificazione garibaldina, mi rivela che tra i tredici cavalieri italiani guidati, nella famosa Disfida di Barletta, da Ettore Fieramosca contro i cavalieri francesi al comando del signor de la Motte per vendicare le offese di codardia lanciate da quest’ultimo agli italiani, vi era messer Francesco Salamone da Sutera, un minuscolo paese a due passi da qui. Come si narra nel romanzo di Massimo d’Azeglio che ne celebrò l’epopea, i cavalieri italiani vinsero la Disfida e costrinsero i francesi a rimangiarsi le loro offese grazie anche al determinante contributo di più di un cavaliere meridionale… Ma a quei tempi a Sud vi era valore e onore che camminavano di pari passo con ricchezza, cultura e civiltà, esattamente i motivi per cui tutti, da ogni parte d’Europa, scendevano desiderosi di insediarvisi.

Le cose sono cambiate, ahimè, dobbiamo convenire. Allora il Mediterraneo era il centro nevralgico del Mondo e l’intera Europa anelava ad esso ed al Mezzogiorno, Sicilia compresa, che ne erano il cuore. Oggi il Mediterraneo, abbandonato dall’Europa che ha legato i suoi destini all’Atlantico, è scaduto, ahimè, a periferia del mondo se non proprio a dominio dei potenti che pretendono di farne cimitero dei disperati che tentano di sopravvivere a casa loro o di raggiungere l’Occidente. I Meridionali dal canto loro han cercato di raggiungere le Americhe per sfuggire ai morsi della fame e del sottosviluppo. Da Caltanissetta furono molti quelli che emigrarono soprattutto negli Stati Uniti. “Rochester, luogo di elezione di molti Nisseni espatriati nella prima metà del secolo scorso, è gemellata con la nostra città, a sancire tale realtà” mi dice Salvatore che così riprende a raccontarmi i fasti passati.

“Qualcuno pensa che il castello costruito dagli Arabi nei pressi del villaggio di Gibil Gabib fu denominato Qal’at an-Nissa perché il visir di Palermo vi insediò il suo Harem, altri invece fanno discendere quella denominazione dal fatto che nella città cresciuta a valle del Castello, si vedevano solo donne in quanto gli uomini, pastori e contadini, erano costretti a rimanere per lunghi periodi nei campi e sui pascoli” precisa a mio beneficio.

I Normanni a loro volta con il Gran Conte Ruggero giunto con il suo esercito dalla Normandia, una volta riconquistata la Sicilia, all’insegna dell’apostolo San Giacomo, allo stesso modo in cui i re cattolici riconquistavano la Spagna ed il Portogallo all’insegna di Santiago, presero possesso del castello di Gibil Gabib che rinominarono di ”Pietrarossa” mentre la città di Qal’at an-Nissa divenne Caltanissetta.

E Caltanissetta continuò a prosperare.

I Normanni infatti e poi gli Svevi con Federico e via via quanti seguirono sino all’epoca moderna e contemporanea, vivificarono quel territorio, sulla scia degli Arabi, senza creare le cesure a cui siamo oggi abituati tra aree costiere e aree interne, tra metropoli superaffollate e terre di mezzo semi abbandonate.

È uno scrigno di conoscenza per me Salvatore.

L’attuale quartiere Angeli costruito intorno alla chiesa di Santa Maria degli Angeli ed al convento ad essa annesso, entrambi voluti da Ruggero a valle del castello di Pietrarossa, divenne il nucleo intorno al quale si sviluppò la città cristiana. Oggi esso è pressoché disabitato, ma a me ha fatto una grande impressione. Le linee romaniche dagli evidenti influssi normanni che scandiscono la chiesa, il portale, ed il convento sono straordinariamente pure e meravigliosamente essenziali. Esprimono un’armonia la cui semplicità incanta lo sguardo e informa di sé il resto del tessuto urbano che con esse prende forma.

In una terra dominata nei secoli successivi dal barocco qui portato dagli Spagnoli, quel quartiere è andato, purtroppo, via via deperendo. Sono gli artisti che oggi lo animano e che promettono, come sempre ed ovunque, di riportarlo al suo antico splendore così come sono sempre gli artisti che presidiano anche gli altri pezzi del centro storico per il resto lasciato alla custodia dei suggestivi vicoli, delle chiese e della cattedrale oltre che affidato ai riti della settimana santa, allorché l’intera città si riversa e si ritrova in esso al seguito della lunga teoria delle “Vare” che raccontano la passione di nostro Signore. La nuova città si distribuisce dal canto suo sui tre colli che fanno corona alla vecchia città che attende…

Sono giunto a Caltanissetta da Catania con un autobus sostituivo del servizio ferroviario in località Xirbi, terreno pietroso in arabo.

Era pomeriggio inoltrato e l’aria tersa. Per due ore ho viaggiato scortato dalla presenza dell’Etna che, come un nume tutelare, distendeva le sue pendici sulla piana di Catania mentre la sua cima si innalzava maestosa al cielo. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella visione. E non l’ho fatto sino all’arrivo del buio allorché “Iddu” come lo chiamano qui, è scomparso.

Catania è appena più in là.

A Sud, Agrigento trattiene il sapore del Mediterraneo e l’eco della Grecia.

A Nord le Madonie orgogliose nascondono l’immensità del Tirreno e Palermo esibisce il sincretismo di un passato glorioso costruito da re ed imperatori e fecondato da popoli e genti diverse.

Caltanissetta, dal canto suo, presidia il cuore interno della Sicilia al riparo da ogni frenesia e scevra da qualsiasi gelosia. San Cataldo è praticamente attaccato ad essa e più in là vi è Enna, l’urbs inexpugnabilis dei Romani grazie alla sua altitudine che la colloca a quasi mille metri sul livello del mare.

Tutta l’area è ricca di creste rocciose che si innalzano come un monumento della memoria.

I ruderi del Castello di Pietrarossa, dal canto loro, segnano la continuità storica oltre che culturale e antropologica di quanti qui si sono succeduti. Sicani, Greci, Romani, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Spagnoli…

Su tutti svetta il Gran conte Ruggero il Normanno che conquistò l’Isola e rese grande Caltanissetta ma l’eredità araba è tuttora presente, nei fonemi che risuonano nella lingua, nei nomi dei luoghi e delle città, nella ceramica e nella cucina oltre che nella sublime arte dolciaria.

Con Enna, Caltanissetta presidia il centro della Sicilia. E la lontananza dal mare non costituisce una diminutio.

Qui non vi sono gabbiani a riempire l’aria dei loro striduli gridi.

Nel cielo dei Monti Erei volano i falchi.

Disegnano il cielo con le loro eleganti traiettorie.

Ad ali spiegate inseguono le correnti in quota e, silenziosi, le percorrono contrastando, con il loro grigio piumaggio screziato del colore della terra arata di fresco, l’azzurro del cielo o il bianco delle nuvole erranti. Non vi sono nemmeno i neri uccelli marini che popolano le falesie marine. Qui é l’upupa dai colori sgargianti e dalla bella cresta ad attraversare con il suo volo radente le campagne intorno alla città e gli aironi in primavera sostano lungo il corso del fiume Salso a rifocillarsi prima di riprendere la loro traversata.

Per farmi assaporare la bellezza di questa parte di Sicilia, oggi invero un po’ troppo trascurata, Salvatore mi porta a fare un giro, questa volta più ampio, sui monti che da altezze più elevate anche se non eccelse, circondano Caltanissetta.

La sensazione che provo è di spaesamento, quasi che mi fosse difficile convincermi di essere in Sicilia. Qualche tempo prima ero stato a Fiumedinisi sui monti Peloritani dietro Messina, ma quelli si innalzavano in prossimità del mare quasi a fare da contro canto al fascino dei promontori che creavano insenature e approdi incantati oltre che ad esaltarne l’azzurro delle acque con il verde cupo dei boschi, il grigio delle pietraie sovrastate dai fichi d’india ed il marrone della terra che spuntava tra quelli.

In auto, questa volta, in attesa di attraversare i Monti Erei a piedi, ci siamo recati a Serradifalco, un delizioso borgo in cima al monte tra prati fioriti di senape gialla e distese di “sulla” una pianta generosa ed esuberante dalle infiorescenze amaranto che creava un contrasto di grandissimo impatto visivo.

Il cardo mariano con le sue corolle anch’esse dai colori rossi tendenti al violaceo incorniciavano i campi ed i prati mentre le ginestre mostravano i primi segni di fioritura.

Casolari e masserie occupavano i pendii dei colli e boschi di eucalyptus dominavano le zone più interne. Un’intera collina era popolata da ulivi secolari che qui tengono bassi a differenza di quanto succede in terra di Puglia dove raggiungono tuttora dimensioni e altezze assai ragguardevoli, addirittura monumentali. Mandrie e soprattutto greggi popolavano gli spazi tutto intorno.

Insomma davvero questo era il regno di Demetra e di Persefone. E immagino che lo stesso dio Pan non disdegnasse di lasciare i monti della Grecia per soggiornare da queste parti.

Per me abituato alla pianura di casa ed al mare come mio elemento identitario era davvero una scoperta.

Lo era ancor più per il fatto che la Sicilia a me nota era quella delle coste. Palermo, Messina, Siracusa, Taormina, Catania, Trapani da cui, ancora ragazzo, mi imbarcai per Favignana. Qui mi ritrovavo nel cuore di un continente in larga parte a me sconosciuto. Sconosciuto e bellissimo, pieno di fascino.

Nei cieli, mentre salivamo, continuavano a volare i falchi.

Mi fu facile decodificare il senso del nome del borgo su cui stavamo salendo.

Serradifalco. Un territorio giunto, come tutte le Serre, dalle ere geologiche antiche e popolato da falchi, poiane e rapaci abituati ai grandi orizzonti ed alle grandi distese.

Da Serradifalco ci spostiamo a Marianopoli, un villaggio minuscolo dominato in alto dal castello. Qui intorno vi sono allevamenti di prim’ordine, tutti allo stato brado.

Salvatore farà provvista di salsicce e prelibatezze dei Monti Erei. Nelle vicinanze vi è Villalba, altro piccolissimo comune disteso su un colle. Salvatore è nato lì.

Domenica in vista della nostra partenza per il cammino di San Giacomo fissata per lunedì, nella sua villa immersa nella campagna appena fuori da Caltanissetta il gruppo di camminatori con rispettive signore ed altri amici si intratterranno in un convivio di saluto.

È straordinaria la dimensione comunitaria che qui si respira.

Qualcosa che affascina.

Non è che io viva in chissà quale megalopoli orfana di ogni reminiscenza ancestrale. E tuttavia la dimensione comunitaria, la solidarietà che qui percepisco è fuori dal comune sentire di una, ormai normale, realtà segnata dalla contemporanea, individualistica ed egoista, civiltà.

Anche il senso della famiglia è ancora straordinario. Non un senso fatto di abitudine o di ipocrita conformismo ma di profondo sentimento di appartenenza.

Molti ragazzi anche qui sono andati via, lo stesso Salvatore ha i suoi figli in continente, come si diceva una volta.

L’influsso della modernità cinica ed edonistica tuttavia qui non si sente ed è un gran bel sollievo pensare che la dimensione comunitaria sopravviva da qualche parte.

Sarà la dimenticanza che ha avvolto il cuore interno della Sicilia, al pari di tutte le Terre di Mezzo del Sud, ad averne preservato il carattere nobilmente primordiale che mi è sembrato di riconoscere?

Tra qualche settimana sarà Pasqua. I figli si preparano a tornare scontrandosi con l’incapacità delle Istituzioni di calmierare i prezzi dei trasporti che esplodono proprio in coincidenza dell’atteso ritorno a casa di quanti sono dovuti partire.

La città prepara i suoi riti.

In un grande spazio vissuto, pieno di gente e tanti ragazzi e ragazze, stazionano le “Vare”, come fossero presenze familiari. Si tratta dei carri che sostengono i gruppi in cartapesta policroma che raccontano la passione.

Vi è la rappresentazione dell’ultima cena, enorme e piena di pathos, l’Ecce Homo straziante, la Crocifissione muta, la pietà silenziosa della madre di Dio e delle donne a lui devote, la misericordiosa deposizione, la durissima salita al Golgotha, l’Addolrata chiusa nel suo impenetrabile dolore, ed il resto dei quadri della passione e morte del figlio di Dio.

Tra giovedì e venerdì santo la teoria delle quattordici “Vare” realizzate a misura d’uomo dallo scultore napoletano Vincenzo Biangardi figlio di Francesco alla cui scuola si era formato e che qui trovò il giusto ambiente per esprimere la sua maestria nella carta pesta, scandiranno le processioni che attraverseranno le vie della città affollate dai membri delle molte arciconfraternite che si faranno carico del loro trasporto, scalzi e penitenti tra la folla traboccante.

Tutta la città sarà in processione.

“Si” mi dicono Salvatore e tutti i componenti il gruppo dei camminatori “dovresti fermarti o tornare. I riti della settimana Santa a Caltanissetta, a San Cataldo ed in tutto il circondario sono di una intensità coinvolgente, piena di emozione e commozione.” E mi convinco che dovrò tornare, certo. Intanto sono grato ai Monti Erei ed alla gente che li popola per aver conservato la genuinità primordiale ed a Salvatore per avermeli fatti scoprire.

La lontananza dai riflettori e dalle facili suggestioni di un aberrante turismo tipico delle coste e delle località balneari, ha protetto questa terra dal degrado del consumismo e dalla follia dell’edonismo cinico e baro.

È indubbio che Caltanissetta ha i problemi tipici del Sud: spopolamento, abbandono, partenza dei giovani, ma da essi non si esce inseguendo scorciatoie massificanti. La dimensione continentale di queste terre può rivelarsi una leva potente per uno sviluppo in sintonia con la natura e con il ritorno del senso del limite e della misura dismessi altrove… magari allorquando il mondo si convincerà che il territorio è la ricchezza a cui l’umanità non può rinunciare e che ad esso bisognerà tornare per decongestionare le aree metropolitane, arrestare le derive distruttive, recuperare un’economia rispettosa dell’uomo e del pianeta…chissà.

Caltanissetta è stata in passato l’epicentro dell’attività mineraria centrata sulle miniere di zolfo. Ora è soprattutto un centro che si regge sui servizi, recitano le note illustrative su di essa. Ma da quanto ho intravisto le attività connesse ad una agricoltura e ad una pastorizia di grande tradizione possono spingere nella direzione giusta. Come le frontiere della innovazione e della tecnologia che qui possono trovare condizioni ideali per svilupparsi e recuperare l’enorme ritardo accumulato dall’intero Paese.

Come la cultura da sempre di casa a Caltanissetta.

Già nel recente passato Leonardo Sciascia la denominò “ la piccola Atene” e Vitaliano Brancati vi si riconobbe e l’editore Salvatore Sciascia la rese grande nel panorama nazionale.

In più ha in serbo nella sua memoria una cultura mediterranea ricca di antiche reminiscenze.

Il futuro è in quella direzione, mi dico, confortandomi con l’idea che il Mondo e l’Umanità dovranno andare in quella direzione, necessariamente.