Prosegue il viaggio letterario di Antonio Corvino, alla scoperta di luoghi, paesaggi e identità culturali del Mezzogiorno di Italia. É la volta di Portici, gemma ricca di storia, cultura e bellezze naturali situata alle pendici del Vesuvio e affacciata sul Golfo di Napoli. Con il suo affascinante mix di eleganti ville borboniche, scorci panoramici sul mare e la vivace vita cittadina, Portici incanta chiunque la visiti. (N.d.R.)
Un’improvvisa tempesta spinse la galea reale a rifugiarsi nell’insenatura del Granatello usata dai pescatori del luogo come riparo per le loro barche.
Quell’insenatura era incastonata tra le falesie del golfo che corre verso Sorrento e Punta Campanella, appena al di qua delle pendici del Vesuvio. Da lì potevi osservare il Monte Somma inciso dai “Cognoli”, la sequenza di cime ardite e frastagliate che caratterizzavano il suo costone interno invisibile dalla costa occidentale.

A guadarsi intorno con la giusta calma, il Granatello era davvero affascinante.
Il Somma-Vesuvio più avanti cedeva il passo ai Monti Lattari che, dal canto loro, si innalzavano con una lunga sequela di vette, che al tempo degli dei antichi avevano finito per diventare, per la loro incantevole posizione, una sorta di Balcone dell’Olimpo sul Tirreno. Essi Segnavano tutto il promontorio e, precipitando a mare, davano vita, da questa parte, al golfo di Napoli con la Costiera Sorrentina e dall’altra parte creavano il golfo di Salerno con la Costiera Amalfitana. Intanto correvano verso Punta Campanella da dove si immergevano nel Tirreno e riemergevano a Capri che, a sua volta, spronava gli occhi a proseguire l’esplorazione verso le altre isole, Procida e Ischia, ancorate in fondo a disegnare un emiciclo elegante di rara bellezza e suggestione. Infine lo sguardo raggiungeva Capo Miseno da cui Plinio il Vecchio salpò con la flotta imperiale a recare generosamente quanto inutilmente soccorso alle popolazioni di Pompei ed Ercolano ed a quanti fuggivano dalle ville esclusive di Stabiae e Oplontis.
La sorpresa dei reali non si arrestava più.
Da capo Miseno essi raggiungevano la sponda occidentale del Golfo…
Bacoli e Baia, Pozzuoli, Bagnoli e Nisida bella e virginale come Nausicaa e poi Posillipo e i Camaldoli, San Martino e Castel Sant’Elmo, la collina del Vomero e quindi Capodimonte per giungere alla Napoli greca e Romana con l’isola di Megaride, il borgo dei pescatori e Castel dell’Ovo.
Il cerchio si chiudeva con lo stabilimento di Pietrarsa dove il regno produceva cannoni in combinazione con lo stabilimento siderurgico di Mongiana in Calabria e che, a distanza di oltre un secolo, sarebbe passato alla storia per l’epopea ferroviaria con la produzione di binari, locomotive e vagoni per la gloria del regno.
Lo sguardo tornava finalmente alle pendici del Monte Somma che annunciava di nuovo il Vesuvio e si fermava finalmente, esausto e grato su quell’insenatura che i pescatori del posto chiamavano del Granatello, per l’abbondanza di melegrane che lì spuntavano dappertutto. Dalla primavera all’autunno i melograni vestivano a festa la zona, che di suo era ricchissima di macchia mediterranea, prima con i loro fiori vermigli e quindi con i bei frutti tondi color della terra striati di venature rosse. In alto sui monti dominavano i boschi di robinie, querce, pioppi e, per ultime, le faggete superbe.
Insomma da quella insenatura potevi percorrere tutto, ma proprio tutto il Golfo. Da Est ad Ovest e da Nord a Sud…
Maria Amalia di Sassonia e Carlo di Borbone, reali del regno di Napoli e delle Due Sicilie non credevano ai propri occhi e benedicevano quella tempesta che li aveva costretti a fermarsi mentre il popolo dei pescatori li ossequiava con curiosità e malcelata soddisfazione.
Per loro quel Paradiso era il premio alla quotidiana, dura fatica…
Era un giorno qualsiasi dell’estate del 1730 o giù di lì.
Nell’estate del 1738 là sopra, proprio dietro al Granatello, alle pendici del Vesuvio sorgeva la nuova reggia, regal residenza estiva dei reali di Napoli, circondata da un grande bosco con giardino botanico, teatro e scuderie. Un incanto da far invidia a quanti cominciarono a venire in visita, i quali immancabilmente si innamoravano di quel luogo e chiedevano alle loro maestà di poter fare loro corona.
Il principe d’Elboeuf dovette cedere la sua tenuta per far spazio alla regal dimora che confinava con il convento dei Francescani Alcantarini che oggi domina la piazza dell’attuale stazione ferroviaria sulla linea Salerno-Napoli che passa per Portici e Pietrarsa percorrendo il tracciato che fu della prima tratta ferrata che Ferdinando Secondo avrebbe inaugurato a distanza di più di cent’anni dalla costruzione della reggia.
I frati Francescani Alcantarini, su suggerimento del re avevano dovuto cedere quota parte della loro proprietà tra mare e monte al principe d’Elboeuf per compensarlo della perdita della sua tenuta e consentirgli di costruire la nuova villa. D’altronde i Frati erano sotto la protezione del regno, vantando il loro monastero il titolo di regal convento, e quindi avevano un debito di riconoscenza da onorare con sua Maestà.

Era l’unica costruzione sulla costa ad incorniciare l’insenatura del Granatello.
Dalla parte opposta sarebbe sorto il quartiere militare a protezione della reggia e dell’insenatura stessa che ormai ospitava stabilmente la Galea regale e le galere di scorta.
Durante l’epidemia di colera del 1884 quel quartiere trasformato, dopo l’avvento del regno d’Italia, in carcere dei forzati venne visitato da Axel Munthe il medico svedese innamorato di Capri che avrebbe legato per sempre il suo nome e la sua vita alla Villa di San Michele da lui costruita ad Anacapri.
Il giovane dottor Munthe, che sarebbe diventato di lì a poco medico dei reali di Svezia e intimo della regina Vittoria, da Parigi si era precipitato a Napoli per soccorrere la popolazione colpita dalla terribile epidemia.
Da quelle parti, poco più in là, sopra Torre del Greco sulle falde del “Formidabil Monte sterminator Vesevo” nel 1834, Giacomo Leopardi si sottraeva ai morsi dell’ultima epidemia di colera trasferendosi nel casale messogli a disposizione da Giuseppe Ferrigni cognato di Antonio Ranieri amico fraterno e protettore del Poeta.
Nello specchio d’acqua del Granatello intanto, dal giorno del forzato ricovero della coppia regale, i gozzi dei pescatori presero a convivere con la flotta regale ed i pescatori si trovarono a conversare con il re e la regina secondo una tradizione tutta partenopea che voleva reali e popolo partecipi di un medesimo destino, il destino ad essi indistintamente riservato dal Vesuvio giorno dopo giorno nel grande golfo che nascondeva la caldera che dalla notte dei tempi custodiva vita e morte a Napoli e dintorni.
…

Sono sceso verso l’imbrunire al Granatello, sabato cinque luglio 2025. Il tramonto infuocava l’orizzonte colorandolo d’arancio.
Un’ampia scalinata di pietra lavica legava il piazzale della stazione alla stradina sottostante, anch’essa lastricata di pietra lavica, che conduceva al vecchio porto. Era punteggiata da minuscole trattorie, una pescheria ed una officina antica di un fabbro-ferraio d’altri tempi. Frotte di gente, e gruppi di giovanissimi ragazzi e ragazze sostavano nei pressi o si allungavano verso il porto. Il mare rifletteva gli ultimi bagliori del sole mentre i lampioni ormai accesi si specchiavano nell’acqua.
Il molo formato da un lungo ed ampio piazzale che percorreva per intero l’insenatura sul lato di sud-ovest ospitava i gozzi dei pescatori. Dipinti di vivaci colori che andavano dall’azzurro al rosso, al giallo ed al verde essi davano l’idea di una gloriosa flotta a riposo. La chiglia pulita accarezzava il mare mentre i remi riposavano sulle paratie assicurati agli scalmi. Sembravano in parata. Non avevano motori in acqua ed erano elegantissimi nella loro forma bombata e tuttavia snella. Piccoli ponti li attraversavano ed erano sovrastati da verricelli per manovrare le reti.
Poco discosto, potenti pescherecci dalle grandi, lucenti ancore sospese sui fianchi, occupavano la parte più interna del molo. Dovevano essere appena rientrati. Sugli ampi ponti a poppa squadre di pescatori liberavano le reti dal pescato mentre a terra altri loro colleghi attendevano con casse ricolme di ghiaccio frantumato. Era un’atmosfera assai serena che invitava ad osservare, ad andare ed a sostare.
Erano belle quelle scene. D’altri tempi. Invece delle quiete barche erano i moderni pescherecci a brulicare di vita e tuttavia, questa, mi sembrava, somigliasse a quella antica, come fosse stata ereditata dai tempi andati.
La lingua armoniosa, i gesti misurati, la fatica ed il desiderio di riposo erano eterni. Ed anche la capacità di accogliere. Gli equipaggi registravano la presenza di marinai dal nero colore della pelle che partecipavano in perfetta comunione a quelle operazioni precise e sacre come riti religiosi. Anche la lingua dei nuovi compagni era uguale e così l’accento, la musicalità, l’ironia, il sorriso, l’attesa…
Il molo era sovrastato sulla parte esterna da una muraglia sopraelevata dall’ampio piano di calpestio a cui si accedeva con delle scale sempre in nera pietra lavica. Da lì sopra la vista era ancora più affascinante. Dominavi per intero il porto. A nord-est, appena oltre l’insenatura, la stazione e la ferrovia. Più in là la lunga, bianca silhouette del convento degli Alcantarini che si disponeva con il triplice ordine di finestre ed il bel loggiato ad angolo tra la piazza e il mare. Dal lato opposto la chiesa del monastero completava la scena, proprio come una quinta teatrale. Lontano il Vesuvio ed il Monte Somma vegliavano.
Immersa nel real bosco sonnecchiava la reggia.

…
La storia di Portici ed anche la sua struttura urbana partiva e si districava tutta dal Granatello.
Anche il Miglio d’Oro aveva preso le mosse dalla storia del Granatello, una storia bella come una fiaba e intrigante come la realtà immersa nella magia di un sogno.
Il miglio d’oro era così denominato per il giallo dei limoni che popolavano i giardini delle ville nel frattempo nate lungo la costa a far corona alla reggia e che annunciavano Ercolano e Torre del Greco, capitale del Corallo, e Stabiae ricca di Ville romane e Oplontis sepolta nel ventre di Torre Annunziata.
Da lì la strada si allungava sino a raggiungere da un lato San Giorgio a Cremano e dall’altro Pompei e Sorrento per fermarsi a Punta Campanella dove spirò Partenope e prese avvio la storia di Napoli.
Il golfo con le isole ed il Vesuvio disegnavano scenografie da sogno ed anche per me, come già per i reali e per i pescatori, era difficile staccarmi.
Il sole era ormai tramontato. Il buio aveva ricoperto ogni cosa. Capri e le altre isole erano scomparse. Le luci del golfo di Napoli ormai avevano preso il sopravvento e lo disegnavano tutto, perfettamente. In cielo la luna ormai prossima a svelare metà del suo volto splendeva tranquilla.
Era sera conclamata quando decisi di scendere dalla muraglia.
Anche i pescherecci erano muti e si addossavano alla banchina in attesa delle prime ore del giorno o forse dell’arrivo dell’equipaggio che si era concessa qualche ora di riposo in famiglia.
Tutto intorno il via vai di gente era diventato assai sostenuto senza tuttavia diventare frenetico.
Ragazzi e ragazze si intrattenevano mano nella mano e si riversavano nella stradina che pure si era accesa.
Delle grandi lampare sovrastavano i locali e i tavolini erano colmi di avventori mentre altri passeggiavano da soli o a gruppi e gustavano nei cartocci la frittura di paranza croccante e calda, anzi scottante a giudicare dalle risate che mi giungevano.

D’altronde era sabato sera, il solleone concedeva una tregua e inviata ad uscire.
Il mare ed il vecchio porto, quella stradina ed i locali con i tavolini all’aperto e le lampare facevano il resto.
Non mi ero reso conto dell’ora, guardai il mio cellulare: erano passate le undici. Erano trascorse almeno tre ore senza che me ne fossi accorto. Era tempo che rientrassi.
Ero pur sempre in convalescenza.
Avevo subito solo qualche giorno prima un intervento di riduzione della ghiandola prostatica all’ospedale Monaldi di Napoli con il metodo innovativo e forse rivoluzionario chiamato Rezum.
Attraverso l’uretra un robot miniaturizzato magistralmente manovrato da medici esperti e pieni di umana comprensione aveva bombardato con getti di vapore acqueo la mia ghiandola prostatica affetta da ipertrofia fortunatamente benigna.
A marzo, durante il cammino di San Giacomo in Sicilia, proprio la sera prima della partenza ero dovuto ricorrere alle cure dei sanitari dell’ospedale di Caltagirone da dove il cammino prendeva avvio per raggiungere Capizzi sui monti Nebrodi. Mi ero bloccato. La mia vescica si gonfiava come un otre e mi dava l’impressione di voler esplodere. In ospedale i medici ed il personale infermieristico furono davvero bravi oltre che comprensivi. Mi rimisero a posto, con mio grande sollievo, e dopo qualche ora mi rimandarono all’alloggio dove nel frattempo i miei compagni erano pure loro in apprensione. Io feci per intero il cammino e senza recidive e tuttavia mi decisi al passo, sempre difficile, di affidarmi ai chirurghi, in questo caso i chirurghi dell’Ospedale Monaldi che sapevo essere particolarmente bravi ed all’avanguardia.
Mi avevano dimesso il giorno seguente l’intervento, raccomandandomi di restare a riposo per almeno una decina di giorni. Certo che potevo camminare, avevano risposto i medici ad una mia precisa domanda, senza tuttavia eccedere, mi avevano ammonito. Ed era un’ammonizione determinante per frenare la voglia di andare di un camminatore abituato ad esplorare il mondo…
Mio padre era rimasto in ospedale per oltre un mese e la convalescenza era stata lunga altri sei per un’operazione analoga che tuttavia non disponeva delle conoscenze, delle professionalità e della strumentazione di oggi almeno laddove la ricerca e la dedizione sono tali da sopperire anche alle carenze dei fondi pubblici.
Riconoscente mi avviai, così, dopo la passeggiata con sosta al Granatello, al mio albergo che era un piccolo hostel… Non prima di avermi fatto preparare un bel cartoccio di frittura di paranza che consumai piano e con gusto lungo la strada del ritorno. Mi resi conto che avevo un buon appetito e quel pesce di paranza era fragrante e profumato, gustoso e consolante…
…
Portici. L’hostel

A Portici alloggio in un piccolo ostello.
Fabrik Hostel il suo nome.
Lindo e discreto, pressoché invisibile, si trova appena discosto dalla piazza di San Ciro che custodisce la basilica di Santa Maria della Natività il cui altare maggiore è presidiato da una grande tela di Luca Giordano che illustra appunto la Natività di Maria.
Da piazza San Ciro si dipartono a raggiera le vie per la Reggia, quella per l’ entroterra che conduce verso i comuni vesuviani, la via per il Granatello, il regal bosco, il convento degli Alcantarini e la stazione ferroviaria tutte in sequenza ed infine la via che a nord conduce a San Giovanni a Teduccio e Napoli ed a Sud a Torre del Greco, Stabiae, Oplontis e via via sino a Sorrento.
Sulla fiancata della Basilica, quella libera da edifici, si apre la via che porta al centro storico attraversato dal mercato che si dipana tra negozi ed abitazioni lungo un dedalo di vie e viuzze che si spengono al limitare dei nuovi quartieri. Questi si dipanano tra alcune delle Ville Vanvitelliane disposte lungo il miglio d’oro che corre tra San Giorgio a Cremano da un lato ed Ercolano dall’altro.
Da quelle ville aristocratiche e dai balconi dei moderni palazzi lo sguardo può spaziare libero tra il Vesuvio ad Oriente ed il Tirreno ad Occidente.

É intrigante Portici, aristocratica lungo la costa e le pendici del Vesuvio ove si susseguono le dimore aristocratiche costruite dai nobili partenopei, popolare, generosa e sfrontata nel centro storico che si distende tra il Granatello, la reggia, il regal bosco e la Basilica, intellettuale e borghese nei quartieri moderni risalenti al secondo novecento che legano il tratto cittadino del miglio d’oro, il centro storico, la Reggia, il bosco, in un pregevole intreccio urbanistico che incrocia anche Ercolano, San Giorgio a Cremano e San Giovanni a Teduccio.
L’hostel Fabric in cui alloggio è a poche decine di metri dalla piazza e dalla Basilica di San Ciro, praticamente all’imbocco del mercato.
É una vecchia fabbrica al femminile dismessa.
Collocata dentro ad un tessuto abitativo disposto intorno all’ampia corte, le operaie vi avevano lavorato sino agli anni cinquanta del secolo passato producendo nastri in tessuto di cotone per le fabbriche di capi di abbigliamento. Poi la chiusura secondo un cliché che concentrava altrove investimenti e innovazione abbandonando ad un destino di sottosviluppo il Sud…
Da alcuni anni essa è stata trasformata in ostello.
Nel rispetto della sua originaria architettura, la struttura, lineare ed essenziale, si dispone intorno alla parte alta del cortile trasformata in un grazioso giardinetto con piccole aiuole fiorite che profumano di lavanda. Su di esso affacciano gli spazi comuni, il ricevimento, la cucina e le sale di intrattenimento.
Le stanze per gli ospiti si trovano lungo i corridoi che si sviluppano a raggiera per due piani.
Lungo le pareti alcune gigantografie della vecchia fabbrica mostrano operaie al lavoro. Le scale in acciaio ripropongono probabilmente quelle dell’antica fabbrica.
Non è un posto pretenzioso.
Al contrario é intimo e riservato.
Le stanze sono piccole e organizzate per lo più con letti a castello salvo alcune che dispongono di letto matrimoniale e bagno privato.
La prima volta che venni mi accingevo a cercare l’altra faccia di Partenope nella cintura più esterna della metropoli napoletana.
Se vuoi infatti cogliere l’anima più segreta di Napoli devi armarti di pazienza e partire da lontano, scoprendo le propaggini del Vesuvio, del Monte Somma e dei Monti Lattari, addentrandoti nei meandri della conurbazione che avvolge il golfo come una grande chiocciola.
Allora io mi muovevo con la mia guida cittadina, Fulvia era il suo nome, conoscitrice della storia di Partenope oltre che studiosa della cultura classica, greca e romana.
E quale base migliore del Fabric Hostel collocato sul limitare del Granatello, del Real bosco, della regal dimora e nel cuore profondo e popolare del centro storico avrei mai potuto scegliere per la mia esplorazione?
La mattina mi svegliavo con il suono delle campane della Basilica. Esse mi riportavano alla mia infanzia mentre la stanza assegnatami mi dava l’idea di una cella piccola e protettiva, amica dell’essere e nemica dell’avere.
Nugoli di ragazze e ragazzi animavano i corridoi e sciamavano dalle stanze. Parlavano lingue straniere e ridevano di un sorriso tipico di chi non sa di avere davanti il mondo da conquistare.
La mattina appena uscito per strada mi ritrovavo catapultato tra la fantasmagoria dei colori del mercato, la melodia delle conversazioni di signore giovani e meno giovani, i richiami dei venditori, le trattative dei compratori, immerso dentro un’ umanità che addomesticava la vita quotidiana tra bimbi al seguito, gente più o meno indaffarata, negozietti estroflessi, banchi e banchetti stracolmi di merci, fruscii di carte e di buste, sapori, odori e fragranze casalinghe, afrori di carni e di spezie lontane, profumi di pesce di ogni genere e specie.
Tutto mi sorprendeva come una grazia insperata. Mi riconciliava con la vita e mi rammentava la speranza che il mondo possa ancora salvarsi.
Qui non vi era traccia di Gentrification.
Le vie pullulavano di gente vera.
Tutto era autentico.
I cortili brulicavano di presenze e bimbi saltavano e scorrazzavano di qua e di là.
La mattina con il suono delle campane mi giungevano le prime voci che animavano le stradine sotto la finestra. Addirittura ebbi la sensazione di sentire un gallo… forse delle galline.
Feci attenzione.
Si, erano proprio galli e galline che con le campane e le voci della gente giungevano a me. D’altronde qui abitazioni e palazzi dispongono tutti di qualche spazio interno privato o comune.
Portici é una città di ottantamila abitanti e fa parte della città metropolitana di Napoli, non è un piccolo paese. Eppure essa custodiva, mi pareva, l’anima innocente del mondo.
Affissi in più di qualche portone avevo visto anche fiocchi blu e rosa…
Insomma la deriva distopica, fatta di spopolamento e desertificazione qui non la percepivi… ed è una gran fortuna, mi consolavo, mentre mi tornava in mente quanto mi aveva detto Vincenzo, uno dei volontari responsabili delle cooperative che han ridato vita alle catacombe e speranza ai ragazzi del quartiere Sanità, il cuore trafitto di Napoli. “Qui i ragazzi a 16/17 anni sono già padri e madri. Siamo l’unica realtà in controtendenza non solo a sud ma in tutto il paese” mi aveva raccontato.
Ha ragione Vincenzo. Le derive che incombono sull’Occidente e sull’Italia che tra qualche decennio potrebbe addirittura ritrovarsi con la metà degli abitanti attuali, qui non si vedono, anzi.
Ed allora andiamo a cercarla l’altra faccia di Partenope, mi sprono, mentre mi aggiro per le viuzze del mercato e mentre mi fermo a parlare con Lucia responsabile del ricevimento dell’hostel.
Lucia, una luminosa ragazza bruna, capelli neri lunghi e ricci addomesticati in alto con più di un fermaglio, occhi scuri e curiosi affacciati, tra ciglia e sopracciglia, su due zigomi rotondi che adornano il suo volto regolare, forme prosperose, giunoniche avresti potuto definirle, mi accoglie sorridente e mi conforta nelle mie piccole esigenze quotidiane di ospite già noto oltre che di convalescente. Mi fa sentire a casa. Mentre Maurizio, il suo collega taciturno e quasi invisibile, zazzera folta e riccioluta ormai brizzolata, mi guarda come per dirmi, “son qua…”.
Su al piano, Manuela e Tania sono premurose anch’esse, ripropongono con interpretazioni personali lo splendore di Lucia. Manuela va su e giù per i piani e per le stanze, indifferente al caldo, Tania, la chiama spesso per un conforto, un aiuto o una istruzione. Sono talmente affiatate che mi sembrano sorelle. Manuela più grande e responsabile, Tania più giovane e sbarazzina… no, no, siamo solo amiche, mi dicono all’unisono, mentre il loro viso si apre al sorriso e si veste di luce.
La mia stanza profuma di fresco ed il corridoio risplende.
Mi accoccolo sul divano del pianerottolo in attesa che finiscano e mi godo le sonorità della loro parlata rotonda e piena di sfumature che mi riempiono di musica al di là del senso delle parole.
Chiudo gli occhi e tendo le orecchie con il resto dei miei sensi.
Esattamente come faceva Pedrag Matvejevic a Sorrento una sera allorché ci imbattemmo in una fata partenopea e nei suoi figli, lei nascosta sotto le spoglie della cuoca e loro vestiti da camerieri. Ci inondavano di effluvi con i loro piatti di mare e ci ammaliavano con la sinfonia del loro discorrere. Eravamo sperduti in un’insenatura nascosta tra le propaggini dei Monti Lattari e la battigia del Mare Tirreno scoperta chissà come, mentre la notte avanzava ed il cielo si riempiva di stelle ed il golfo ci abbracciava.
E per un misterioso accostamento della fantasia mi ritrovo sprofondato in una poltrona nella grande sala d’ingresso di un mastodontico albergo in San Pietroburgo, allora denominata ancora Leningrado, mentre la responsabile del piano mi squadra diffidente come se volesse arrestarmi a prescindere e consegnarmi alle guardie per il solo fatto di avere l’aspetto di un occidentale. I suoni gutturali della sua lingua mi colpivano con l’asprezza di uno scudiscio mentre felice ridevo tra me in attesa dell’arrivo di Nadiesda che avrebbe trasformato quei suoni in musica per le mie orecchie e balsamo per il mio cuore…
…
Al Fabric ci venni anche allorquando mi accinsi con Marco, esperto arrampicatore, a dare l’assalto al Vesuvio dalla parte del Monte Somma attraverso la catena dei “Cognoli”, i fiumi di lava e la valle dell’Inferno.
Da qui mi immersi, scortato dalla mia guida esperta di letteratura, storie e miti partenopei, nella scoperta delle ville vanvitelliane nascoste dietro poderosi portoni ed alti muri che le isolavano dal mondo circostante gelose del loro privilegio e della vista del mare negata ai comuni mortali.
Da mane a sera facevo la spola tra antico e moderno alla ricerca dei misteri degli scavi di Ercolano, Stabiae e Oplontis e tra le meraviglie delle ville settecentesche disposte di qua e di là della reggia estiva dei Borbone.
La sera rientravo e ruminavo sulle mie scoperte mentre mi godevo il fresco del cortile interno del Fabrik hostel un po’ divenuto anche casa mia.
Da qui ascesi al colle di Sant’alfonso dove fui sorpreso da un tramonto che mi toglieva il fiato mentre un padre redentorista mi rammentava la grandezza del creato voluto da Dio e che egli cercava con tutte le sue forze di proteggere dall’ingordigia dell’umanità deviata.
È sempre da qui mi immersi nella villa delle ginestre rimanendo a colloquio con lo spirito di Leopardi…
Insomma mi son fatto l’idea che Portici con il suo mercato sia un po’ il riflesso cittadino del Granatello, nascosto e poco appariscente eppure aperto al mondo e denso di religioso senso della vita.
E mentre mi accingo a partire, il piccolo Fabric Hostel mi pare una specie di boa a cui é fissata l’idea stessa della vita, quella autentica al riparo da sprechi ed esibizionismi, impregnata di senso del limite e della misura che giunge dal Mediterraneo e dalla Grecia, dal Mare Egeo che qui diventa Mare Tirreno immenso come Oceano e intimo come casa…


Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è uno scrittore, poeta, saggista ed economista di cultura classica. Già Direttore Generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, ha organizzato, in tale veste, dal 2011 al 2015 il “Sorrento Meeting” che ha affrontato, con il concorso di intellettuali, studiosi, rappresentanti economici e politici, controcorrente, dell’intero Mediterraneo e di altri Paesi asiatici ed americani, con largo anticipo e visioni non scontate, le questioni esplose in maniera virulenta, negli anni più recenti: dai nodi gordiani del sottosviluppo alle migrazioni, dai giovani nuovi argonauti in cerca del futuro all’effetto macigno dell’Euro sull’economia Mediterranea ed al negativo condizionamento del paradigma nord-atlantico su di essa, dall’energia alla logistica, al destino del Mediterraneo che ahimè appare sempre più compromesso. Ha ricoperto in passato diversi incarichi dirigenziali nel sistema confindustriale. Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso, tra il 2019 ed il 2024, numerosi cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale italiano coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi e romanzi. Nel settembre 2023 è uscito per Giannini Editore il suo primo romanzo di viaggio: “Cammini a Sud Sentieri, tratturi, storie, leggende, genti e popoli del Mezzogiorno” Nel novembre 2024 è uscito per Rubbettino Editore il suo secondo romanzo di viaggio: “L’altra faccia di Partenope In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” Nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino il volume “Mezzogiorno in Progress”. Un volume-summa sulla questione del Sud cui hanno collaborato trenta tra studiosi economisti ed intellettuali e trenta imprenditori fuori dagli schemi. Da ultimo, per l’Università Partenope, il CEHAM di Valenzano-Bari e l’Ordine nazionale dei biologi, ha realizzato un corso monografico in video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master post laurea. Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente. Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno. Collabora con la rivista letteraria Il Randagio su cui è stato da ultimo pubblicato il Racconto “Faust? Lo salveranno le studentesse di Fes e il mondo lo raddrizzeranno gli Africani” legato all’esperienza maturata in Marocco nel giugno 2023.
